La critica acritica dell’arte che generò il femminismo italiano

Per quanto lo studio scolastico della storia dell’arte proponga esclusivamente artisti di sesso maschile, escludere la donna dal panorama artistico sarebbe un errore tanto miope quanto grave. Tale miopia non è certo figlia dell’arroganza o della censura, quanto piuttosto di una ridicola mancanza all’interno di un sistema che non presenta agli studenti (e insieme alla società) gli sviluppi culturali del nostro mondo negli ultimi cinquant’anni, il nostro ieri più prossimo.

La donna nell’arte ha fatto molto più che dipingere quadri o scolpire marmi. Ha saputo partire da essa, per quanto da sempre esclusa, per fondare le sue teorie di rivalsa, per mostrarsi assai più creativa di coloro che artisti sin son sempre considerati.

In questo, il palcoscenico italiano ci ha regalato una delle menti più significative del binomio arte-femminismo, affrontato con una genialità sconcertante degna del migliore Nietzsche. Parlo della fiorentina Carla Lonzi.

La Lonzi inizia ad affacciarsi sulla scena culturale italiana come critica d’arte, dopo essersi laureata in storia dell’arte nell’ateneo di Firenze che fu al tempo di Roberto Longhi. Il suo approccio alla critica è subito scostante rispetto alla tradizione, con segnali precisi di quel “mettere in discussione” che segnerà il suo cammino futuro.

Spezza la linea di confine tra l’artista e chi è al di fuori dell’esperienza estetica, spogliando così l’arte del suo carattere di mito culturale. Spiega: “Sono forse diventata artista? Posso rispondere: non sono più estranea. Se l’arte non è nelle mie risorse come creazione, lo è come creatività, come coscienza dell’arte nella disposizione al bene”.

Le sue riflessioni porranno le basi per una rivalutazione dell’approccio alla storia dell’arte, verso quella che verrà postulata come una vera e propria critica acritica.

Il commento del critico, ma anche solo la sua presenza come struttura mentale e come ruolo, è l’eco di una condizione umana alienata che suppone se stessa in relazione dialettica con l’artista mentre gli è incompatibile; non opposta, ma sganciata da lui.

La figura di critica diviene stretta per la giovane donna e nel quindi del tutto abbandonata. Il luglio del 1970 è l’anno della stesura, insieme con Carla Accardi ed Elvira Banotti, del Manifesto di Rivolta Femminile.

La sua distanza dalla cultura ortodossa è totale e il fruitore dell’arte viene inteso come una mera vittima passiva. Qui il punto di svolta. Sarà proprio la figura dello spettatore d’arte a essere utilizzata come emblema della condizione della donna: ella è passiva, vittima, inerte fruitrice della creatività dell’uomo. Proprio come l’artista che esclude dal suo creare una parte di umanità.

L’arte necessita, secondo la Lonzi, di una figura ricettiva che la giustifichi e la sostenti: nel momento in cui essa scompare, anche l’arte viene messa in discussione. Ugualmente, la totale indipendenza dalla prospettiva patriarcale e dalla dinamica liberatoria maschile viene riconosciuta come unica via alla liberazione femminile. Un atto liberatorio e perciò creativo.

Le teorie della Lonzi segnano un punto di non ritorno. Il movimento che viene a nascere è talmente totalizzante ed energico che arriva persino a superare il “fare arte”. Le attiviste sosterranno esserci molta più creatività nel femminismo che nell’arte, in quanto l’uno non porta le codifiche inestirpabili dell’altro.

Insieme a queste motivazioni emotive, bisogna ricordare la tendenza del primo femminismo a rifiutare qualsiasi modello maschile, quindi precostituito e impuro. L’attrazione verso la creatività eppure non manca. Si preferisce la forma orale, magari il teatro, e a partire dal 1974 la rivista «Effe» torna ad approfondire il tema, domandandosi in particolare modo come mai la donna fosse sempre stata esclusa da questo ambito.

Vale molto più di molte di riflessioni la puntualizzazione che «Effe» riporta:

Artista è un sostantivo maschile e femminile, ma nel suo significato più alto si usa sempre al maschile; dire infatti “è un’artista” riferendosi a un soggetto femminile, significa, al massimo artista di circo o ballerina. Si usa preferibilmente al singolare. Si accompagna spessissimo con il concetto di “genio”; genio, sostantivo maschile preferibilmente singolare.

La donna è stata privata dell’arte, chiusa, secondo queste teorie, dall’egoismo narcisista dell’uomo e della società da questi manipolata. Tuttavia, niente deve impedire alla donna di essere creativa, di tornare a riappropriarsi di un campo, come molti altri, fino a quel momento precluso.

Per cambiare qualcosa, da che parte esse avrebbero dovuto cominciare? Una risposta la sussurra Cloti Ricciardi: “E se cominciassimo dal femminismo?”


Fonti

Wikipedia

Crediti

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