Condannato a morte Roof, è storia a Charleston

Era il 17 giugno 2015. Era sera. La comunità metodista di Charleston, South Carolina, stava celebrando la messa. Circa un mese prima, in aprile, l’ennesimo episodio di violenza delle forze dell’ordine nei confronti di un afroamericano. Le proteste, le discussioni, e anche il dolore, sono ancora più che vivi nella comunità nera. Dylann Storm Roof, un giovane bianco di 21 anni, entra nella chiesa. Si siede. Ascolta le parole del reverendo Clementa Pinckney, un simbolo della lotta afroamericana. Aspetta. Aspetta ancora. 45 minuti. Si alza. Estrae una Glock 45 e fa fuoco. Uccide 9 persone e fugge.

Qualche giorno dopo verrà arrestato dalla polizia mentre, armato, è fermo in macchina a un semaforo. Dopo circa un anno e mezzo arriva la condanna. Ed è storica: condanna a morte. È infatti la prima pena capitale emessa per un crimine d’odio. Sono senz’altro diverse le motivazioni che hanno spinto la giuria, dopo una consultazione di tre ore, a emettere all’unanimità questa sentenza. Prima di tutto la premeditazione dell’attentato. Roof avrebbe infatti impiegato sei mesi per prepararlo e attuarlo. La totale mancanza di rimorso per quanto fatto, come ha ammesso l’imputato poco prima della condanna: “Sentivo di doverlo fare. E sento ancora che dovevo farlo”. La stessa accettazione da parte di Roof della condanna, ancora prima che questa fosse emessa: “Ho il diritto di chiedervi una condanna all’ergastolo, ma non so a cosa possa servire”. Tanto che alla lettura della condanna a morte resterà impassibile. E infine l’ultimo motivo: il desiderio di Roof che il suo gesto potesse scatenare una guerra civile per la supremazia bianca e una nuova segregazione razziale.

Fin dal giorno dopo la strage tutti gli USA, con a capo il Presidente Obama, si erano stretti intorno alla comunità di Charleston. E lo stesso avviene in questi giorni, dopo la lettura della condanna. E si può quindi affermare che il sentimento di odio razziale nei confronti della popolazione afroamericana è, perlomeno a parole, poco diffuso negli States e che la condanna sia ritenuta giusta dai più (per quanto possa ritenersi giusta la condanna a morte, argomento sul quale gli statunitensi si sono pronunciati già nell’election day).

Resta però un tema su cui interrogarsi. La facilità di accesso alle armi. Il tema è salito infatti alla ribalta (nuovamente) dopo la strage. Roof si procurò la sua pistola in un negozio vicino casa senza troppi problemi così come avevano già fatto, tra i tanti, Cho Seung-hui in Virginia, Adam Lanza in Connecticut, Eric Harris e Dylan Klebold in Colorado e, qualche giorno fa, Esteban Santiago in Florida. Obama si è pronunciato più volte contro questo possesso indiscriminato di armi da fuoco e ha provato a porre dei limiti. Ma molti gli hanno dato contro, seppur il problema sia “elefantiaco” come raccontato dal film di Gus Van Sant, liberamente tratto dalla strage alla Columbine, e debba essere in qualche modo risolto. Questa colossale questione tuttavia non sembra abbastanza grande alle orecchie di Trump che più volte ha difeso la lobby delle armi, e la libertà di possederne in nome del secondo emendamento, adottato circa 230 anni fa. Tempo tanto lontano quanto lo sembra oggi una soluzione.


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