“Laurence Anyways”: non abbiamo bisogno di essere “normali”

Sto cercando qualcuno che capisca la mia lingua e che la parli. Qualcuno che, senza essere un reietto, contesti non solo i diritti e il valore degli emarginati, ma anche quelli delle persone che affermano di essere normali.

Così inizia Laurence Anyways, terzo lungometraggio di Xavier Dolan, che dopo J’ai tué ma mère e Les amours imaginaires, ci propone un nuovo film dall’ampio respiro sociale, ma soprattutto un film introspettivo che ci porta alla scoperta del percorso tortuoso e spesso doloroso di chi scopre di essere transgender e decide di onorare tale scoperta.

Il film infatti si configura come il racconto della vita di Laurence Alia (Melvil Poupaud), raccontata dallo stesso durante un’intervista, la stessa che apre il film. Il protagonista ci racconta come al suo trentacinquesimo compleanno comprese che la sua vita non era mai stata genuina, che aveva vissuto la vita di un altro: in realtà era sempre stato una donna, e solo come tale avrebbe potuto veramente sentirsi libero. Iniziò così il suo percorso in quanto transgender, tra il rifiuto della famiglia e l’iniziale apertura della fidanzata Fred (Suzanne Clément) al cambiamento. Il rapporto tra i due però si romperà pian piano, sotto il peso della complessità di una situazione simile, ma in fin dei conti chi lo ama capirà che è sempre Laurence, comunque.

In un unico grande flashback che ricopre un arco di dieci anni, ogni tanto intervallato di nuovo dalle voci di Laurence e la sua intervistatrice, la narrazione ci restituisce la complessità della vita di una persona transgender, ma soprattutto realizza visivamente la claustrofobia e l’insofferenza verso una società che non accetta il diverso. Sono innanzitutto metafora evidente di tale società gli sguardi delle persone che circondano Laurence, che lo guardano, lo indagano, cercano di capirlo e senz’altro lo giudicano. E così come il film si apre con una lunga sequenza di sguardi delle persone a cui il protagonista passa di fianco, e che spesso arrivano a guardare direttamente nell’obiettivo; tutto il film continua a presentarci gli sguardi delle persone, che senza conoscerlo lo etichettano come il diverso, lo scrutinano e lo escludono dalla loro vita “normale”.

Noi stessi siamo poi invitati a guardare Laurence, ma a differenza della gente, l’invito è di andare al di là del semplice sguardo, tanto che in quella stessa sequenza iniziale non ci viene concesso di vederne il volto. Noi, in quanto pubblico, dobbiamo comprendere Laurence, la sua psicologia e quella di coloro che lo amano, comprendere la sofferenza, la felicità di una vita troppo complessa per essere spiegata con le apparenze.

Così non solo ci viene concesso di entrare nella vita di Laurence, ma la sua claustrofobia viene resa visivamente attraverso il formato scelto dal regista. Dolan infatti, rende lo stesso linguaggio cinematografico claustrofobico, rimpicciolendo il formato dell’immagine a quasi un quadrato. È un iniziale esperimento di quello che poi diventerà un vero e proprio quadrato, in un formato 1:1, in Mommy, dove un altro protagonista verrà etichettato come disturbato psicologicamente, e per questo rinchiuso nel suo mondo, escluso esattamente come succede a Laurence.

Dolan però non solo riesce a rendere egregiamente uno dei temi più importanti della società attuale, ma riesce a rappresentare la complessità stessa delle relazioni, perché alla fine Laurence Anyways è una storia d’amore, l’amore difficile e tormentato tra Laurence e Fred, un amore che sembra inizialmente riuscire a superare ogni scoglio, ma che poi si lascerà naufragare. Il loro è un amore sommerso dalla difficoltà di vivere una vita “normale” in un mondo borghese che esige normalità, e condanna la diversità.

Ma in fin dei conti, quello che ci sembra chiedere Dolan attraverso Laurence è: esiste davvero la normalità? E perché mai dovremmo desiderarla così ardentemente? La felicità è essere se stessi, essere determinati e non lasciarsi catalogare da chi non comprende la diversità, concetto stesso che diventa relativo, come quello di normalità.


Fonti

Wikipedia

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