Istanbul aspetta la pioggia per non piangere da sola

Nella notte di Capodanno 2017, Istanbul è fredda, spazzata dal vento ed esausta dopo giorni e giorni di pioggia incessante. I fuochi d’artificio inzuppati di malinconia si spengono presto, lasciando un silenzio in cui si avvertono ancora più forti gli spari.

La città di Istanbul nella notte del primo di gennaio 2017 è vittima di un attentato terroristico opera di un estremista islamico che, introducendosi dentro al Reina, una discoteca del quartiere di Örtaköy, uccide 39 persone. Nello stesso momento, al quartiere di Sultanhamet, nell’abbraccio senza tempo di Hagia Sophia e della Moschea Blu, io e il mio compagno di viaggio ci stiamo gustando una delle cene a base di pesce migliori della città, in un ristorante desolatamente vuoto. Nessuno ci avverte che è scoccata la mezzanotte, e andiamo a fumare un narghilè nella sonnolenza di un locale dove siamo gli unici clienti.

Avremmo potuto recarci in piazza Taksim dove si tiene uno spettacolo all’aperto, ma devo confessare che per quanto mi sia sforzato di reagire lucidamente, il terrore stava prendendo anche me. Ho infatti promesso agli amici rimasti a casa che mi sarei tenuto lontano dai luoghi affollati, almeno nella notte di Capodanno.

Nell’anno che è appena terminato Istanbul è stata già sconvolta da un attentato all’aeroporto internazionale Atatürk e da un tentativo di colpo di stato. Ad alimentare il panico generale si sono aggiunti l’assassinio dell’ambasciatore russo ad Ankara, e l’attentato ai mercatini di Natale a Berlino nel mese di dicembre.

Al rientro in albergo mi connetto con il Wi-Fi, e il mio smartphone comincia a cinguettare senza sosta. Scrivo sulla bacheca di Facebook che sto bene, ma continuo ugualmente a ricevere messaggi fino a notte fonda, considerando che rispetto all’Italia ci sono due ore di differenza. Vorrei rispondere a tutti “State calmi, qui non è pericoloso, solo tutto molto triste. Non bisogna avere paura di Istanbul!”.

Infatti, è soprattutto questo che lascia sgomenti: in alta stagione turistica all’entrata dei principali monumenti non si forma nemmeno una coda; i negozianti del Gran Bazar vendono la loro chincaglieria d’artigianato alla metà del suo prezzo e affermano “di solito per questi vicoli non si riesce nemmeno a camminare per la ressa”; i camerieri dei ristoranti muoiono di noia, in attesa di qualche cliente, ho anche l’impressione che per le strade girino molti più uomini che donne.

Più che l’eventualità di rimanere vittima di un attentato – più improbabile di quanto si pensi – ciò che atterrisce è constatare che, con il contributo di tutti, la strategia del terrore sta avendo successo. Si sta insinuando nella popolazione la paura di vivere la propria normalità, diventando più vulnerabile e incline a concedere parte della propria libertà in cambio di maggiore sicurezza.

Istanbul soffre per un assedio combattuto con paure, sospetti e pregiudizi. Questa città musulmana ed europea, che farebbe vacillare l’islamofobia anche negli occidentalisti più convinti, rischia di veder soffocato il suo respiro cosmopolita, il suo non essere di nessuno – motivo per cui tutti la rivendicano a sé. Tra le meraviglie di Istanbul che ho il terrore di perdere: il Museo dell’Innocenza costruito dal Premio Nobel Orhan Pamuk per conservare gli oggetti appartenuti alla storia d’amore tra Kemal e Füsun, le cucine del Topkapı dove si preparavano i pasti per i quattromila misteriosi abitanti dell’Harem, l’universo esclusivamente maschile o femminile degli hamamı, le coppie che si abbracciano al Parco Gezi, il paninaccio col pesce pescato nel Corno d’Oro, il gigantesco volto di Saffo che non guarda da nessuna parte.


Fonti

Wikipedia

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