Frank Ocean: eremita tra il frale infinito e il biondo elegiaco

Scrivere di Frank Ocean è rischioso: si vuol parlare del musicista o del fenomeno mediatico che lo circonda? È amara la frequente scelta del secondo tema, che finisce col tramutare l‘analisi critica in un ripiegamento su se stesso del discorso mediatico. Non si guarda l’opera, ma quel che accade intorno e verso essa. Trattasi di una conseguenza dei culti dell’attesa e della celebrità, dilaganti e facilitati dalla cultura dell’iperconnessione.

Sono passati quattro anni da che Ocean ha pubblicato il suo acclamato debutto, Channel Orange. Il marasma generato dai media, e in parte anche dall’artista, è stato colossale. Eppure, dietro tutto il rumore accumulatosi nel tempo, c’è della musica, che ha preso la forma di due album rilasciati la scorsa estate dal cantautore e rapper losangelino.

Prima è arrivato Endless, un visual album denso di collaborazioni (da Jonny Greenwood a James Blake, passando per gli sperimentalismi di Arca) che si dipana come un flusso di canzoni piacevoli e in certi casi brillanti, ben orchestrate seppur poco coese. La parte visiva mostra Ocean in un magazzino, impegnato nella costruzione di una scala: metafora dell’impegno e della meditazione che richiede una scalata al successo? Domanda vuota. È più plausibile infatti che sia un mero richiamo al fatto che Endless è un work-in-progress, ovvero un gradevole coacervo di tracce “scartate”, da ascoltare come un progetto fine a se stesso – ma comunque da non sottovalutare.

Resta il sospetto che sia nient’altro che un espediente per sottrarsi al contratto con la Def Jam, sussidiaria della Universal, con la quale Ocean avrebbe dovuto pubblicare due dischi (il primo fu il suddetto Channel Orange). Con l’uscita di Endless ha potuto così liberarsi dal vincolo con l’etichetta che fu di Rubin e Simmons.

La riconquistata autonomia gli ha permesso di rilasciare, dopo soltanto un giorno, il secondo album ufficiale attraverso la sua indipendente Boys Don’t Cry. Blond(e) è il risultato di quattro anni di lavoro recluso, lontano dalle luci del successo ottenuto e poi ricusato. In quel periodo, Ocean si esponeva attraverso sporadici ritagli e frammenti del progetto che stava sviluppando, spesso mendaci o fuorvianti. Si è rafforzata la domanda: stratega del marketing o timido genio? Altra domanda vuota – anche se spesso la verità raccoglie da ambe le parti – alla quale Ocean ha voluto rispondere con un sonoro “We’ll let you guys prophesy / We gon’ see the future first”.

Giunge dall’apertura, Nikes, il cui beat fluttuante accompagna le diverse voci che Ocean incarna nel corso della canzone, dando l’avvio al gioco delle ambiguità che caratterizzerà tutta l’opera, a cominciare dal titolo. Tema della traccia è la ricerca spasmodica del piacere, che sia donato da beni di consumo o dalla droga, ricerca che Ocean al contempo critica e confessa.

Anche Blond(e) si avvale del contributo di grandi nomi, che compaiono tuttavia in maniera effimera, quasi fossero dei miraggi vocali. Accade ad esempio con Beyoncé e Kendrick Lamar, rispettivamente su Pink+White e Skyline To, che sembrano delle ierofanie discese dall’olimpo della musica, dal quale lo stesso Ocean tenta di fuggire. Caso d’eccezione è la traccia Solo (Reprise), dove un ispirato e vulcanico André 3000 (metà del duo hip-hop Outkast) condensa in poco più di un minuto lo strazio che deriva dalla depressione, dal sentirsi isolati e apatici rispetto a un mondo confuso e volatile. Ocean affronta le stesse sofferenze, vicine alla sua esperienza personale, nella precedente Solo, accompagnato da una base organistica e minimale sulla quale risalta la melanconia del suo canto.

Ocean riesce anche a commuovere, come sul tappeto di chitarre in stile shoegaze di Ivy. Qui, raggiunge uno dei picchi più laceranti dell’intero album, nel racconto di una relazione fallita che culmina in grida cariche di rimpianto e tormento.

Blond(e) prosegue – è un incedere che ha accenni zoppicanti, ma che nel complesso regge. Ritorna alla critica dell’edonismo sfrenato, come nella già citata Pink+White, oppure insiste sulla confessione di un desiderio fisico (Self Control). Fino a che non si giunge al perno del disco: Nights. Tagliata in due parti per mezzo di un radicale cambio di beat, la canzone è il riflesso dell’ambivalenza. In un gioco di alternanze cicliche, quasi mistiche e che nel ritornello assumono la forma di un mantra, Ocean tenta di recuperare pezzi del passato su un’atmosfera ritmica dapprima delicata, poi mesta.

Le narrazioni di amori trascorsi e travagliati occupano gran parte del disco. In ciò, Ocean si allinea alla consuetudine che occupa gran parte dell’odierna black music e in generale del pop, dai quali però riesce a distinguersi, grazie a delle produzioni innovative e una scrittura raramente banale e scontata.

Ne è fulgido esempio Siegfried, punto d’arrivo delle precedenti Solo e Nights, nel quale ciclicità, depressione e passione si risolvono e dissolvono in una canzone destrutturata, fondata su un canto che sa di rifiuto del conformismo e della superficialità, degli stereotipi e delle gabbie sociali, con lo scopo di cercare un timido riparo nella penombra, lontano dalla falsità delle luci.


Fonti

Wikipedia

Crediti

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