Di saponette a cui ci si abitua

Un’immagine postata da Michela Murgia sui suoi profili social fa nascere la riflessione: l’ironia è sempre concessa o è importante pesare le parole?

Michela Murgia e la saponetta

Michela Murgia è una scrittrice pluripremiata, teologa, esperta in questioni di genere. Di questi temi ha scritto, venendo spesso interpellata su questioni sociali di attualità e temi etici, in quanto personalità qualificata dai propri studi. Il 21 novembre, nel pieno dell’accesissima campagna referendaria, appare sulle sue pagine social personali (ma con un seguito nell’ordine delle decine di migliaia di utenti) un’ immagine quantomeno sorprendente, per una persona di questa levatura. In questo fotomontaggio due piedi e porzioni di gambe maschili, nudi, in quella che appare facilmente identificabile come una doccia. A terra una saponetta, sul quale è stato applicato il logo che i comitati per il sì al referendum costituzionale dello scorso 4 dicembre usavano per il loro obbiettivo, corredato del relativo slogan “basta un sì“. Questa immagine è stata dalla Murgia corredata da una scritta che recitava: la campagna che mancava“.

Il significato della saponetta

Fino qui il dato oggettivo. Chi conoscesse le prese di posizione della scrittrice sarda, da sempre a favore di ogni minoranza, non ha esitato a ritrovare nel commento una vena ironica volta probabilmente a contestare i toni poco appropriati dei quali le politiche sempre più si servono. In particolare durante questa campagna. La lettura immediata da darsi all’immagine è infatti evidente ai più. La saponetta evoca infatti una specifica rappresentazione della omosessualità maschile, che della doccia faceva il luogo deputato a infliggere penetrazioni o rapporti sessuali violenti a ignare vittime pressoché casuali. Questa iconografia entrata nell’uso comune è ancora tristemente in voga e generalmente condivisa. Un notevole numero di omosessuali può infatti raccontare ironia vessatoria su varianti di questo canovaccio, oppure il rifiuto di compagni di squadra a frequentare spazi comuni, una volta scoperto l’orientamento sessuale. Atteggiamenti che spesso sfociano nel bullismo omofobico e nella violenza.

La risposta di Michela Murgia

Va da sé quindi che sarebbe semplicistico e non intellettualmente onesto bollare di eccessiva suscettibilità chi, sentendosi ferito (gay o meno), ha provato a far notare alla Murgia la negatività e l’omofobia del messaggio passato dall’ immagine. La scrittrice si è spesso battuta per la comunità lgbt, tanto più in periodo unioni civili: è stata tra le tra e prime a firmare la petizione promulgata da Sebastiano Mauri, e presenza attiva nell’appello “Si, lo voglio”, delle celebrità italiane. Si  è inoltre impegnata, come teologa a spiegare l’assenza di contrasto tra i diritti e la dottrina. Con simili premesse sarebbe stato lecito supporre il tono deplorante del suo commento all’immagine. Così non è, e a chiarirlo è la stessa Murgia, che rivendica in alcuni tweet, il senso dell’immagine esattamente come si è portati a interpretarla, specificando che “la persona in piedi è l’Italia”, e che si tratta di una metafora del venire fregati. La Murgia rivendica poi di non essere affatto omofoba, e che la correlazione con l’omosessualità è arbitraria.

La necessità di scusarsi?

Quantomeno, da chi maneggi le parole per professione, sarebbe stato opportuno, anziché difendere l’indifendibile, prodigarsi immediatamente e spontaneamente in semplici e quanto mai utili scuse? Avrebbero giovato a molti ragazzi che quotidianamente si vedono oggetto di bullismo da chi li circonda, in nome di pregiudizi come questo? La scrittrice ha ritenuto di motivare la propria scelta con una lunga nota, al termine della campagna referendaria, in cui spiega prese di posizione che saranno oggetto di un articolo di prossima pubblicazione. Accade tuttavia spesso che frasi e immagini non dissimili da quelle usate in questo caso siano fatte passare per ironia, grevità innocue o funzionali, come in questo caso, a un messaggio politico. Occorre chiarirlo: questa non è ironia. Si tratta di parole che sono spesso preludio di violenza, subita o auto-inflitta da chi è troppo fragile per reggere l’insulto. E la mancata volontà di chi le pronuncia non è sufficiente a evitare un potenziale epilogo tragico, da non sottovalutarsi.

Un’opinione pubblica poco attenta alle parole?

La dialettica politica è ormai infarcita di questo tipo di frasi. Si pensi a quelle di Trump sulle donne, alle battute di Berlusconi sulle “culone inchiavabili” e gli “abbronzati”, ma anche agli insulti provenienti da sinistra ad Adinolfi per la sua stazza fisica messa in relazione al suo pensiero. Lo stato di salute della discussione politica ci è tuttavia evidente. Che cosa accade però se a fare proprio questo tipo di cadute di stile  (e l’arroganza di difenderle) sono professionisti della parola che hanno, volenti o nolenti, possibilità di influenzare l’opinione pubblica? Michela Murgia non è la prima e non sarà l’ultima, motivo per cui non si vuole accusare nessuno. Bisogna piuttosto chiedersi: Il buon vecchio detto “le parole pesano”, con le loro immagini, in era di social network e digitale, lo si è dimenticato?

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