Io sbuffo perché… L’attenzione sociale della musica si sta estinguendo

“Abbiamo perso la memoria del ventesimo secolo.

Comunque sia, abbiamo perso.”

[L’Impero delle Tenebre – Il Teatro degli Orrori]

 

Ve lo ricordate il ventesimo secolo? Non serve averne memoria viva, è sufficiente anche quella teorica, la memoria di quel che è stato e ci è stato consegnato. Cosa ne abbiamo fatto del dono artistico-politico del ventesimo secolo? L’abbiamo messo su di un palco per farne intrattenimento, spettacolo gastronomico, parafrasando la definizione di Eco del Festival di Sanremo. Il resto del mondo occidentale non si è certo esonerato dal partecipare alla banalizzazione e mercificazione del processo artistico, in particolar modo di quello musicale.

Premetto che non desidero fare di questo articolo una generalizzazione, mettendo alla gogna tutti i vari e assortiti talent show, festival della canzone, programmi di varietà e via dicendo. Il piacere dello spettacolo mediatico è comprensibile e non è compito di nessuno issarsi a giudice del gusto altrui in senso assoluto e inquisitorio. Dato di fatto è, tuttavia, che la tendenza crescente ad affidarsi ai grandi format televisivi per il lancio di musicisti emergenti sia causa di un altrettanto crescente appiattimento del canone artistico su di una convenzionale correttezza, condita dall’onnipresente e ormai stucchevole romanticismo da rivista. Tale è una considerazione di fatto: il senso di oggettività può prescindere dal gusto personale.

Fatte le dovute premesse: cos’è stata la musica del ventesimo secolo? Anzitutto, la musica era allora legata a doppio filo con le tematiche socio-politiche dell’epoca, tante delle quali, tra l’altro, ancora mantengono una propria attualità. Avevamo le ballate folk contro-culturali di Bob Dylan, per fare un nome di recente tornato d’attualità (i commenti relativi al perché e al percome li releghiamo ad altro luogo); ma potremmo anche scavare oltre nella memoria culturale, sino a trovare il nome remoto di Woody Guthrie, cantautore del primo Novecento, celebre per la frase “This machine kills fascists” appiccicata sulla sua chitarra; oppure, per insistere oltre la metà del secolo scorso, giungiamo alle canzoni, agli inni del movimento per i diritti civili, che si issavano in coro dalle marce di Martin Luther King, dai comizi di Malcolm X, che facevano da eco alle proteste delle Pantere Nere.

 

Più andiamo avanti e più conferme incontriamo del rapporto tra società e musica. Prima la carica ribelle e anti-sistemica dell’ideologia punk, incarnata al meglio da band come i Clash o i Sex Pistols; poi abbiamo l’emergere della cultura hip-hop, che faceva suoi gli insegnamenti delle critiche sociali dei Last Poets e di Gil Scott-Heron, nonché dei suddetti movimenti civili degli anni Cinquanta e Sessanta. La brutale realtà delle canzoni dei N.W.A., l’assalto dei Public Enemy ad un sistema corrotto e dominato dai bianchi, sono alcuni eccellenti esempi della cultura neo-contestativa urbana che si andò formando tra gli anni Ottanta e Novanta, che in aggiunta diedero alla luce musicisti-attivisti del calibro di Morrissey e Thurston Moore, rispettivamente leader degli Smiths e dei Sonic Youth.

Negli stessi decenni, in Italia, nascevano percorsi artistici intrisi invece della “originale” contestazione della politica extra-parlamentare che accendeva l’Europa del tempo. Tra i cantautori possiamo citare Claudio Lolli, Francesco Guccini, il sommo Fabrizio De André; nel rock, gli Area di Demetrio Stratos e gli Stormy Six. La canzone “attivista” e di protesta era un genere a sé stante che in quel periodo aveva contaminato la discografia di musicisti tra i più celebrati del nostro paese.

Abbiamo poi i picchi sonori di questa protesta, rintracciabili negli album dei System Of A Down o dei Rage Against The Machine. Fu proprio quest’ultimo gruppo ad incarnare forse al meglio, sia nell’immagine che nell’arte, l’ideale della musica come forza oppositrice delle ingiustizie e delle disuguaglianze, ideale che stava regalando al mondo i suoi ultimi sonori focolari di protesta.

Oggi questo fervore pare essersi spento, o quantomeno gravemente affievolito. Di sicuro la radice del problema è, in parte, nel diffuso fenomeno di passivizzazione dalla politica, che ha contribuito all’estinzione di un sentito attivismo artistico, spesso limitato ad una critica liquida (volendo citare anche Bauman) e triviale. Altra plausibile causa è l’avvenuta, inesorabile commercializzazione delle suddette culture musicali. Uno degli effetti peculiari del mainstream è, dopotutto, sfornare prodotti musicali che non mettano in discussione lo status quo in maniera radicale o pericolosa. Quantomeno, nella musica popolare del Novecento, chi correva rischi, soprattutto a livello dei testi, non era necessariamente recluso al mondo dell’underground.

Le eccezioni, per fortuna, come in ogni periodo storico e artistico, vi sono. Anche perché molte delle situazioni e dei fenomeni politici criticati in passato, come già detto, sono tutt’altro che scomparsi; Semmai si sono modellati. Basti pensare al razzismo sotterraneo – ma non troppo – presente nella società statunitense, contro il quale sta lottando il movimento Black Lives Matter, formatosi nel 2013 in seguito all’assoluzione di George Zimmerman per l’omicidio di Trayvon Martin.

Ingiustizie, povertà, guerre, corruzione, sono realtà di allora come lo sono del nostro tempo. Certo, le necessità espressive mutano di epoca in epoca ed è giusto che ognuno, nella propria musica, possa trattare i temi che desidera. Dietro tale libertà artistica però, giace la triste constatazione che la partecipazione politica tra i musicisti sia ai suoi minimi storici. Il disinteresse si espande e le personalità diventano più importanti dei messaggi. Io sbuffo affinché questa tendenza si inverta.

 

Ribadisco che le eccezioni ci sono. Ecco quindi una condita lista di ascolti e riflessioni musicali.

Jazz:

R&B:

Rap:

Elettronica:

  • Squarepusher – MIDI Sans Frontières, primo passo di un progetto ispirato dall’ideale della collaborazione globale

Pop:

  • Anohni – Hopelessness, l’esordio dell’angelica voce di Antony Hegarty sotto il nuovo pseudonimo

Rock:

  • Il Teatro Degli Orrori – Dall’Impero Delle Tenebre

 

 

https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/0/09/Woody_Guthrie_2.jpg

 

Fonti: Articolo Pitchfork sulla musica di BLM, Articolo Pitchfork sulla musica da protesta degli afro-americani, immagine

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