Addio piccolo elfo

– Addio piccolo elfo! Parto oggi. Parto! Penso che non ci rivedremo mai più. –
– Ma come? Parti? – La voce interdetta. Spiazzata. Una voce che cerca risposte e nasconde richieste. Una voce, tuttavia, ovattata, che non tradisce emozioni. O non vuole tradirle. Le emozioni si imbottigliano in quella terra di emigranti, di grandi scrittori. In quella terra infagottata dai fumi delle teiere, dell’alcol e dalla nuvolaglia bassa.
– Sì! Parto! Non è meraviglioso? Parto! Non la provi anche tu quella gioia esagerata che accompagna le partenze? Non hai l’immagine, che so, di una stazione o di te che corri per acchiappare il treno che sta per partire e in fondo, alla fine del treno vedi il cielo, dalla volta della stazione?
– Bha…no…io….no. –
Troppo impegnato. Troppo serioso. Guadagnarsi da vivere. Lavorare. L’etica del lavoro. Che la sua generazione non aveva ereditato da quella del padre. Il padre, macellaio, che aveva iniziato a lavorare a 12 anni.
Li lasciasse a lei quei racconti di ricordi, di sogni a occhi aperti. E poi si sarebbe stufato anche se quella ragazzina non fosse partita. Ne avrebbe trovata un’altra di lì a qualche giorno. Ma perché?
– Beh, dove vai si può sapere? – La voce, ancora, irritata, come quella di un bimbino che perde le staffe dopo che gli si è levata la playstation di mano. Un bimbinello. Sveglio. Sempre attento.
Poteva controllare i movimenti di dieci persone con la coda dell’occhio mentre studiava. E così aveva controllato anche i movimenti di lei. Per dei mesi. In quella biblioteca che sembrava un acquario. Lei che faceva delle corsette rapide per la sala di lettura riservata agli studenti più grandi. Correva a risistemare la sua pila di libri in un angolo. Lei che strizzava gli occhietti dietro la montatura rosso fuoco per mettere a fuoco i dettagli lontani. Lei che a ogni suo passo inquieto faceva sventolare quelle sue gonnelline sopra il ginocchio. Lei, una scolaretta in biblioteca. La biblioteca di quella università fondata per i rampolli dei protestanti. Grigia. Era un’università di pietra grigia, solida. Al centro di quella città di emigranti, di grandi scrittori. Tanti di quei grandi scrittori ci erano andati in quell’università grigia. Chi lo sa, forse qualcuno aveva anche trovato l’anima gemella in biblioteca.
Di certo lui non sarebbe diventato uno scrittore. Sì, gli piaceva leggere. Nulla di più. Sì, si era anche impressionato quando lei gli aveva letto alcuni dei suoi passi preferiti. Il delirio di Raskolnikov sul divano, preda della febbre. Quell’ansia,era vero, la si poteva sentire nello stomaco oltre che leggerla tra le righe.
Quisquilie.
Non era quella la vita. E che la smettesse di chiamarlo piccolo elfo. Lei, che incrociava quasi tutti i giorni in quelle giornate di pioggia battente. Che più che giornate erano serate perché in inverno il sole tramontava alle 3 del pomeriggio. Lei che guardava dritto mentre gli passava accanto, altera, guardava verso il fondo della biblioteca. Ne aveva spiato le letture. Credette dapprima che fosse una studentessa di Storia dell’arte. Un quaderno di appunti. Su di esso era incollata una copia del Trittico delle Meraviglie, Bosh. No. Non studiava storia dell’arte, soltanto ci si interessava. Il quaderno era solo l’ultimo della pila. Sotto c’era tutta una serie di mattoni dai titoli inverosimili. E stupidi. Per quanto lo riguardava.
Teoria della Letteratura.
Come se la letteratura non fosse di per se stessa abbastanza irreale.
Lei, che gli si era avvicinata al ballo di fine anno mentre erano fuori dal muro di cinta in coda. Un vestito giallo vivace, smagliante. Un vestito che le fasciava il corpicino etereo. La prima volta che si erano parlati. Lei, che parlava con tutti e rideva con tutti, troppo calorosa per la cultura di lui. Lei lo aveva fermato con una battuta ‘sempre in biblioteca secchione!’. Lui non era un secchione, s’era innervosito, lui era una giovane maschio forte che si riempiva di birra e ogni tanto studiava.
E, per quanto si sforzasse di non essere romantico, si ricordava la colonna sonora del loro primo incontro, Where is my mind, Pixies, che proveniva da uno dei cinque palchi installati per il campus. E poi ancora l’aveva rivista quella sera al cinema all’aperto. Davano un classico, ‘Qualcuno volò sul nido del cuculo’. Lui era arrossito. Era lì con un’altra ragazza. E poi con una scusa una volta, trovatala ad una festa, l’aveva riaccompagnata a casa. E di li in poi sette settimane vedendosi tutti i giorni. Una relazione alla giornata, disimpegnata. Nessuno dei due sapeva cosa avrebbe fatto di lì a qualche mese, dopo la fine del master. Ma gli piaceva tirarla su da terra, prenderla, si sentiva forte, lei era così leggera, due paia di occhi azzurri, occhi negli occhi, corpo bianco contro corpo bianco, ma di due bianchi diversi.
Lui si era iscritto di mala voglia al dottorato. Non sapeva se l’avrebbe portato a termine. Dottorati e dottori. Tutta gente che viveva su un altro pianeta. Lui avrebbe fatto qualcosa di concreto. Ma quella relazione estiva, con quella ragazzina sfuggente, sognatrice e difficile da penetrare lo faceva stare bene. Lei era così diversa dal suo mondo, lei era un po’ viziata, snob ma senza cattiveria. Non parlavano molto. Lui odiava parlare, soprattutto di sé. ‘Emotions are for ugly people’ le aveva detto un giorno.
Lei era spesso taciturna, bizzarria che riservava a lui solo. Si perdeva con lo sguardo nel vuoto, si girava verso di lui come per dire, con quegli occhi che erano una preghiera, e poi il nulla in un sospiro lieve.
E ora lei, lei partiva. Così. Come aveva attaccato a parlargli quando erano in coda per il ballo di fine anno, per caso, così, altrettanto per caso, se ne andava.
– No che non te lo dico! – Seguito da una linguaccia.
Lei gli mandò una cartolina dalla sua città natale, una città situata altrove, lontano dalla terra di emigranti e di grandi scrittori. ‘Ti scrivo dalla mia nuova cameretta. C’è un letto, un lavandino, un comò. La diagnosi è che sto molto bene. Ma ho una grossa benda sul polso sinistro, è alta una quindicina di centimetri. Ah, e ora mi fanno mangiare carboidrati e proteine!’

Sharp

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