“La banalità del male” di Hannah Arendt

[…] I giudici non gli prestarono fede perché erano troppo buoni e forse anche troppo compresi dei princìpi basilari della loro professione per ammettere che una persona comune, “normale” non svanita né indottrinata né cinica, potesse essere a tal punto incapace di distinguere il bene dal male.

Hannah Arendt, La banalità del male, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 2014, p.34.

Aprile 1961, Gerusalemme: Otto Adolf Eichmann, uno dei maggiori responsabili dello sterminio della popolazione ebraica durante la Seconda Guerra Mondiale, viene processato e condannato a morte.

Non parleremo del processo né delle mostruosità commesse dai tedeschi nei confronti degli ebrei durante la guerra, non qui. Quello che ci interessa è che in tribunale, come reporter del The New Yorker c’era una presenza d’eccezione, una donna di straordinaria intelligenza che ha saputo fare un’analisi obiettiva, profonda e giusta non solo dell’intero processo, ma anche e soprattutto dell’animo umano: Hannah Arendt. Il suo resoconto è uscito sulle pagine del giornale e nel 1963 è stato risistemato e pubblicato come libro, con il titolo La banalità del male.

Innanzitutto, un po’ di contesto. 1961: dopo la Guerra, dopo Norimberga; in Argentina viene catturato Adolf Eichmann, il responsabile della deportazione degli ebrei nei campi di concentramento, e nell’arco di pochi giorni viene condotto a Gerusalemme. In Israele, quest’uomo incarna il male assoluto, puro, privo di filtri e di conseguenza va condannato. Non ci sono dubbi, l’intero processo è solo una formalità, non c’è altro da aggiungere. È un mostro e come tale va impiccato. Punto.

Ma Hannah Arendt non era solo un’ebrea. Hannah Arendt era anche una filosofa. Ed era una donna. Agire con i paraocchi senza fermarsi a riflettere non rispecchiava il suo modus operandi. La comunità ebraica le chiedeva di limitarsi a fare un resoconto del processo, additando Eichmann come un assassino privo di qualsiasi umanità senza porsi troppe domande. Ma una filosofa (o una donna intelligente?) non può non porsi domande.

Cosa spinge un uomo a fare del male? L’abitudine. L’autogiustificazione. Isolare un’intera popolazione in un ghetto? Sbagliato, ma passi. Trasferirla nei campi di concentramento? Sbagliato, ma passi. Imprimerle un numero sul braccio, disumanizzarla, spersonalizzarla, toglierle qualsiasi forma di dignità? Sbagliato, ma passi.

Il male viene giustificato passo dopo passo, si parte da lontano, dalle piccole azioni. La coscienza dell’uomo si sporca un po’ per volta. All’inizio è linda, pulita, immacolata. Una bianca, bianchissima coscienza. Poi, la prima macchiolina. Quasi non si vede, è impercettibile. Pazienza, nessuno la noterà. Poi un’altra, ancora piccola ma un po’ più evidente. Non fa niente, anche questa passerà. Poi un’altra macchia, questa volta chiara, tonda, centrale, che inizia a pendere verso l’immoralità. Così funziona. E di macchia in macchia, si diventa sporchi, luridi, sbagliati, assassini.

Non basta mettere una pistola in mano a un uomo perché questi decida di usarla. La natura umana impone a ognuno di noi di non uccidere. Ma esiste forse qualcosa di più vulnerabile, mutevole e influenzabile della natura umana? È facilissimo cambiarla. E questo l’aveva capito molto bene chi ha progettato lo sterminio degli ebrei. Basta mandare in cortocircuito il meccanismo che educa le persone a fare del bene, per spingerle a fare del male. Niente di più banale.

E ancora, in una società che pone come obiettivo quello di sterminare un’intera popolazione, che spinge gli uomini a uccidere ergendosi a unico vero dio universale, chi può essere certo che si sarebbe tirato indietro? Chi è pronto a mettere una mano sul fuoco che non avrebbe contribuito allo sterminio degli ebrei?

È questo il punto. Non è la mentalità di Eichmann a essere sbagliata, o meglio: è anche la mentalità di Eichmann, ma questo non riguarda in alcun modo la sua indole. Eichmann non è nato assassino, lo è diventato. Perché le regole della sua società gli imponevano di uccidere, perché quella era la normalità e ribellarsi era l’eccezione. Eichmann era un uomo ambizioso, un arrampicatore sociale, faceva quello che gli veniva chiesto perché il suo unico scopo nella vita era quello di raggiungere un grado sempre più alto, arrivare alla vetta. Una persona ottusa, priva di ideali, che non aveva i mezzi per costituire un’eccezione. Certamente. Ma non per questo un assassino di natura. Un assassino in potenza, diciamo. Un contenitore vuoto, privo di qualsiasi contenuto, che veniva riempito a seconda di quello che gli altri gli chiedevano. E quello che il Terzo Reich gli chiedeva, era di uccidere. Il suo contenitore vuoto, forse, avrebbe potuto essere riempito di bene, e invece è stato riempito del male più assoluto. Eichmann era una pagina bianca da colorare insomma, un burattino, e questo, potenzialmente, avrebbe potuto renderlo qualsiasi cosa. Nel Terzo Reich, in particolare, l’ha reso un assassino.

Ora vi chiediamo: quanti contenitori vuoti conoscete? Anzi, per amor di brevità: quanti contenitori pieni conoscete? Torniamo un attimo indietro, facciamo finta che la nostra società non ci abbia trasmesso alcun valore, poniamo che nessuno ci abbia mai insegnato la differenza tra bene e male, diventiamo per un attimo anche noi dei contenitori vuoti. In quanti di questi contenitori c’è della sostanza, quanti possono dire di essere un po’ più pieni degli altri?

Quanti possono dire che durante il Terzo Reich avrebbero rappresentato l’eccezione e non la normalità? Quanti sono certi che al posto di Eichmann si sarebbero tirati indietro?

Ecco la verità: in ogni contenitore vuoto si nasconde un potenziale assassino. E l’aspetto inquietante è che, a nostro avviso, statisticamente esistono molti più contenitori vuoti che pieni.

Ma comunque. Il ragionamento di Hannah Arendt non è piaciuto alla comunità ebraica: il processo a Eichmann era e doveva essere solo una formalità, non c’era bisogno che qualcuno si mettesse a filosofeggiare sulla morale degli uomini. Quello che era successo rappresentava il male assoluto. E il male andava estirpato.

Su questo, Hannah Arendt era d’accordo: la Shoah rappresentava in pieno il male e così Adolf Eichmann.

Ma per una filosofa, il termine male è troppo generico, troppo vasto. Il male di una ferita è diverso da quello di una delusione, quello di un tradimento è diverso da quello della perdita di una persona cara e così via. Ognuno ha la propria personale sfumatura, ognuno è originale, unico, inimitabile. E allo stesso modo, il male della Shoah andava definito, aveva bisogno di un aggettivo che lo accompagnasse. E per lui, Hannah Arendt ha scelto una particolarissima –e infinitamente discussa- compagna di banco: la banalità.

Eccoli lì, vicini, due termini apparentemente così diversi: il male, cioè la pancia, la carne, il sangue, il dolore e la banalità, ossia l’apatia, la superficialità, in pratica l’incapacità di provare sentimenti. Ma perché il male di cui parla Hannah Arendt è banale?

[…] Eichmann non era uno stupido. Era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità), e tale mancanza d’idee ne faceva un individuo predisposto a diventare uno dei più grandi criminali di quel periodo.

Hannah Arendt, La banalità del male, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 2014, p. 290.

Hannah Arendt svuota completamente Eichmann di significato, lo rende un individuo inerme, vigliacco, un inetto, incapace non solo di ribellarsi, ma anche e soprattutto di rendersi conto di quello che stava facendo. Ma quello che forse non è stato chiaro alla comunità ebraica, è che sostenere che uno dei maggiori responsabili dello sterminio degli ebrei non si rendesse letteralmente conto di quello che stava succedendo, non significa giustificarlo. Significa in primis mostrare la totale mancanza di intelligenza di questa persona. In secundis, suonare un campanello d’allarme: Attenzione signori, durante la Seconda Guerra Mondiale qualcosa è andato in cortocircuito, le persone hanno smesso di ragionare e hanno iniziato a giustificare azioni disumane. Attenzione signori, al posto loro avremmo potuto esserci noi e non è detto che ci saremmo comportati diversamente. Questo voleva dire Hannah Arendt. Semplice.

E infine –aggiungiamo noi- fate grande, grandissima attenzione, signori. Perché la storia si ripete.

Insomma, il libro di Hannah Arendt racchiude in sé tutte le caratteristiche che un Bel Libro dovrebbe avere: è lungimirante, originale, interessante, brillante, intelligente, a tratti addirittura ironico, irriverente e soprattutto politicamente scorretto. Rompe miliardi di tabù, è coraggioso, senza peli sulla lingua. E poi, è forse uno dei pochi libri sulla Shoah che riesce a essere completamente imparziale: Hannah Arendt si limita a descrivere quello che vede, senza preoccuparsi –questa volta sì- della sua morale, della sua storia, delle sue origini. Lascia lavorare il suo cervello senza alcun tipo di filtro. Insomma, Hannah Arendt, un’ebrea, riesce a parlare di un gerarca nazista senza alcun tipo di pregiudizio, perché il suo unico intento è quello di capire, di comprendere cosa succede e cosa potrebbe potenzialmente succedere non solo nella mente di Eichmann, ma in quella di tutti noi:

E come nei paesi civili la legge presuppone che la voce della coscienza dica “Non ammazzare”, […] così la legge della Germania hitleriana pretendeva che la voce della coscienza dicesse a tutti: “Ammazza” […]. Il male, nel Terzo Reich, aveva perduto la proprietà che permette ai più di riconoscerlo per quello che è – la proprietà della tentazione. Molti tedeschi e molti nazisti dovettero essere tentati a non uccidere, a non rubare a non mandare a morire i loro vicini di casa; e dovettero essere tentati di non trarre vantaggi da questi crimini e divenirne complici. Ma Dio sa quanto bene avessero imparato a resistere a queste tentazioni.

Hannah Arendt, La banalità del male, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 2014, p.157.

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