Il lettore eterno

Sedeva ormai da giorni alla sua scrivania moganata, tra le pagine dei suoi libri, accanto al fuoco e avvolto nella sua coperta. Assorto. Immobile. Eterno. L’eternità lo avvolgeva: non un solo alito di vento, non un respiro né una brezza. Immobilità d’annata, la più perfetta, l’unica, quella vera.

 

Egli leggeva da giorni, forse da mesi o da anni. Non sapeva più ormai da quanto e forse non era nemmeno importante saperlo. Non lo era già più da tempo. No, ciò che era importante, ciò che davvero contava, era riuscire a cogliere il senso di ciò che faceva coi libri e in primis, di ciò che i libri contenevano. Cosa può contenere un libro? Carta, inchiostro, immagini stampate sulla carta che si stampano nella mente, esperienze, concetti, un cumulo di termini. Così era. Sì, un cumulo di termini che egli doveva continuare a scalare con la speranza presupposta che da quella vetta avrebbe potuto guardare giù in basso. Guardare ciò che era rimasto in basso. O forse, sarebbe meglio dire semplicemente, ciò che era rimasto.

Solo un particolare assurdo inquietava e distraeva a tratti il lettore eterno: un roditore, probabilmente un animale, un qualche essere che produceva rumori sinistri di là delle pareti listellate di legno cedrico.

Ecco, egli era distratto, a tratti, da questo rumore. Ciò che gli procurava il solo sentirlo era indescrivibile. Aveva provato a non pensarci, pure a tapparsi le orecchie con dell’ovatta. Tuttavia a nulla era servito. Il rumore era rimasto e lo sentiva distintamente.

Era assolutamente terrorizzato nell’udire quel suono, tutta la sua persona si scuoteva percorsa dai brividi d’un’insonnia cosciente.

Della bestia, d’una luna fredda s’immaginava le pupille, il pelo irto di setole dure, le orecchie scavate nel cranio, come gettate a casaccio senza alcuna connotazione nei tratti, così come anche il viso e la smorfia tremenda che al solo evocarne il presunto aspetto faceva smarrire da ciò che era reale, poneva in tremore ogni più stabile sicurezza profonda. E tremava il lettore eterno.

Subito però si scuoteva da quell’incantesimo stolto. Lui, pensava, doveva leggere, doveva imparare, doveva sapere.

E così continuava, dopo i suoi tremiti, a ritornare all’eterno del libro stampato percorso da punti infiniti al morir d’ogni frase.

Nulla era stato efficace a proposito: aveva letto di tutto, dai libri di zoologia che avrebbero potuto aiutarlo a identificare la belva, a quei romanzi che riuscivano a togliergli il prurito del tremito solleticandolo in alto, là, sopra la sua intenzione, sopra la sua ragione terrorizzata. Aveva anche letto d’ogni genere di rimedio al suo problema: dal modo di stanare le bestie, al come compiere della meditazione che servisse a non lasciarsi distrarre. Aveva letto di tutto. Nei libri aveva letto, sempre nei libri.

 

Così il tempo era passato, scorso dagli anni alle ore, o viceversa; come se potesse importare davvero saperlo.

Ora, accadde, nel giorno di un anno, che stesse leggendo l’atlante storico delle religioni, dove ogni cultura spirituale era inserita, capitolo per capitolo, definizione su definizione, citazione su citazione, secondo uno schema che nel concetto di tempo ritrova il suo articolarsi.

E i capitoli passavano, come i suoi giorni, come i suoi anni. Molte nozioni, molti nomi, molta sapienza.

Arrivò così alla pagina 1001 quando, a un cigolio, seguì ancora il rosicchiare dannato.

Ciò che avvenne si svolse nel lasso d’un attimo: le sue mani si serrarono diventando immediatamente sudate come la schiena percorsa da una colata gelata umidiccia, le gambe ebbero un sussulto e le sue ginocchia schizzarono al petto. In tale posizione fetale seppe che doveva fare qualcosa, compiere un gesto, e in un moto irriflesso fece qualcosa che non faceva da tempo: cercò nel suo cuore senza neppure aver intenzione di farlo. Cercò lì poiché in quel luogo era la sua paura, essa lo chiamava a gran voce costringendolo finalmente a voltarsi, così dentro il suo petto fu costretto a guardare. In quel momento preciso seppe ancor meglio, o meglio fu certo, che in tutto quel tempo l’angoscia era cresciuta in lui, era montata, s’era insidiata in profondità, radicata nei meandri del suo spirito. Lo spirito. Già. Ora guardandosi dentro seppe che il suo spirito s’era da tempo smembrato, s’era da tempo diviso in più parti. Com’era possibile? Come poteva trovarsi in una condizione così tormentatamente frammentaria? In quel secondo capì, che per ogni cristallo di tempo trascorso, ogni frammento del suo essere l’aveva implorato di non lasciarlo fuggire. Ogni secondo, così per secondi, minuti, ore, mesi, anni. Momento per momento, parola per parola, pagina su pagina, punto su punto.

Accadde tutto in un istante che compì sé stesso nel suo stesso scandirsi, in quel momento che fu ai suoi occhi dannato poiché egli s’era dannato.

Cadde quindi in quell’instante sul pavimento, la poltrona si spostò sotto il peso del corpo. Cadde accanto al fuoco con gli occhi sbarrati d’un’opacità sconcertante che era lontana da ogni presente, da ogni passato e da ogni possibilità di futuro.

Cadde nello scintillio di una miriade di stille dorate, plasmate della sostanza eterna smembrata; eternamente smembrata.

La sua anima era caduta in frantumi, seccata, indurita, spezzata, senz’altro soffio di vento che la muovesse nella danza dell’armonico moto antico degli astri. Poteva letteralmente contarne i pezzetti sparsi attorno a ciò che di lui era rimasto, sul pavimento.

Accadde ora che un altro pezzetto, sospeso sul bordo del bracciolo della poltrona, finì nell’abisso su cui si affacciava. Già, cadde. E la bestia tuonò! Il tuono, d’un rosicchìo, d’uno scricchiolio, il ruggito d’una belva sepolta viva, straziata da un moto agognante la vita. Era la fine: la vide arrivare dentro i suoi stessi occhi mentre le fiamme del camino, lambita la coperta di cui s’era ammantato, lo chiamavano a loro carezzandolo con lingue espiatorie.

Bruciò assieme alle parti di sé che aveva smarrito. Perduto nel buio. Tornato alla luce. Nulla era accaduto. Eppure tutto da ora riprese a vivere. In una stilla completa perché l’unica eterna. In un momento di vita che vive la vita.

 

Arsene Petaurum.

credits

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