Essere John Malkovich – Il culto dell’altro e del controllo

“You see, Maxine, it isn’t just playing with dolls.”

“Oh my darling, it’s so much more: it’s playing with people!”

Noi siamo noi. Ovvero, non possiamo essere altro che il corpo e la mente che siamo: la nostra condizione umana -legata al nostro essere animali radicati nell’empirico- non ci consente esperienze esistenziali al di fuori della dimensione corporale. C’è chi parlerebbe in tal caso delle cosiddette out-of-body experiences, ma in che misura siamo certi che si tratti di un distaccamento dal piano materiale, in direzione di uno che potremmo definire paranormale o trascendentale, e non piuttosto dell’ennesimo esercizio cerebrale, dunque chimico? Esperienze del genere, come quella paradossale che si verifica in Essere John Malkovich (1999), sono, purtroppo o per fortuna, relegate al reame della finzione, dell’immaginario e del fantastico. Esistere come altro è un obiettivo irrealizzabile.

Eppure il desiderio permane e assume la forma di un mito sociale che attraversa l’intera storia della civiltà umana. L’ambizione, l’invidia, l’imitazione, il sogno, sia nella sua accezione onirica che in quella aspirazionale, sono degli esempi del nostro sempiterno desiderio, recondito o meno, di essere altro da ciò che siamo. Così ci costringiamo, assecondando con piacere il gioco, ad essere delle rappresentazioni. In fondo, potremmo essere altrimenti?

Parlare del film d’esordio di Spike Jonze significa scoprire un vaso di Pandora, dal quale fluiscono le idee, riflessioni filosofiche, satire, ironie, i paradossi dello sceneggiatore dell’opera, Charlie Kaufman, che può annoverare nella propria filmografia, sia nelle vesti di scrittore che di regista, capolavori come Synecdoche, New York, o il più recente Anomalisa. Anche per lui, Essere John Malkovich fu il battesimo cinematografico. Prima traccia di un percorso creativo tra i più originali e intriganti del nuovo millennio, con la quale Kaufman ha voluto indagare le assurde necessità e aspirazioni delle persone.

La scena iniziale impone sin dall’inizio la rappresentazione come uno dei temi portanti della pellicola. Un burattino si muove su un palco, avanza mosso dal suo creatore, il burattinaio Craig Schwartz (John Cusack), che sta facendo esibire in una danza malinconica questa versione miniaturizzata di sé stesso.  È disoccupato, vive con la moglie Lotte Schwartz (Cameron Diaz), una candida amante degli animali, ed è costretto a portare i suoi spettacoli sul marciapiede per guadagnare qualche spiccio, nonostante sia palese che desideri esercitare la propria arte ai massimi livelli, diventare famoso, essere celebrato e riverito. Un annuncio su un giornale per un posto da archivista (“cerchiamo un uomo con le mani veloci!”) gli fa sperare di poter guadagnare almeno con dignità, mettendo le sue abili dita al servizio di un’altra occupazione. L’azienda presso cui lavorerà è la Lester Corp., situata al settimo piano e mezzo di un anonimo grattacielo di Manhattan. È qui che incontra Maxine, della quale si infatua al primo sguardo.

Questo l’incipit del film, la cui base narrativa è la classica storia dell’uomo che si innamora di una donna di cui non dovrebbe innamorarsi. Il riferimento diretto è ad Abelardo ed Eloisa, le cui vicende Craig rappresentava per strada attraverso i suoi burattini. Egli stesso riveste il ruolo di un Abelardo, ma al contrario del brillante e poetico teologo, è un inetto e ridicolo uomo, incapace di sedurre Maxine, la quale è dal suo canto l’opposto della mite e innamorata Eloisa. Lo ridicolizza e schernisce, rivelandosi per la maggior parte del film come l’incarnazione della macchinazione diabolica e del desiderio incontrollato di possedere. Gli sguardi di una simile creatura non potranno mai essere indirizzati verso un omuncolo come Craig, che comunque ambisce ad averla per sé, immaginandosi di sedurla e baciarla attraverso i suoi burattini, tra i quali ora ve n’è uno che ha le sembianze della sua femme fatale. Quello di Craig Schwartz è un mondo di legno e fili, il solo in cui può avere il controllo.

 

Da qui, il realismo magico di Kaufman prende una piega inaspettata. Nel suo ufficio, Craig scopre una porticina nascosta, che conduce dentro un tunnel. È un portale, dal quale si entra nella testa dell’attore John Malkovich. Una coscienza accede ad un’altra coscienza. Com’è vedere con gli occhi di un’altra persona? Craig può ora rispondere a questa domanda, perché è stato John Malkovich. Il desiderio dei molti, essere come i loro idoli -è a questo che serve lo star system, no?-, può essere finalmente esaudito, nella maniera più totale immaginabile. Viene superata l’emulazione, in direzione di un’esasperata e surreale identificazione. Per quindici minuti si può essere John Malkovich. Craig ne è estasiato, sconvolto, confuso. Lo dice a Maxine, che come suo solito lo snobba. Poi lei ci ripensa, e gli propone una partnership d’affari: far pagare duecento dollari a chiunque voglia entrare nel grande John Malkovich, la cui testa non è esente dalle bieche leggi del commercio e del consumo.

Tutto ciò naturalmente all’insaputa di quest’ultimo. D’altronde, una celebrità ha come unico scopo di starsene davanti ai riflettori, a fare da modello e simbolo per coloro che ambiscono al suo status, alla sua notorietà, alla sua vita, la quale sfugge alla disperazione indotta dal banale. Anche qualora si tratti di gesti comuni, che ognuno nella propria quotidianità compie, come mangiare gli avanzi o comprare degli accessori per il bagno: il fatto che sia una celebrità a compierli, li riempie di un fascino inedito e appetibile. E non aspiriamo ad altro se non a cucirci addosso i loro comportamenti, per farne la pantomima, pietosa rappresentazione di quel che non siamo e crediamo di voler essere.

Kaufman e Jonze guardano così alla fragilità dei desideri, dell’amore -compiendo tra l’altro acute osservazioni su come il sentimento prescinda dai ruoli, sociali o biologici (ovvero, il genere), su come il corpo sia un mero veicolo della passione amorosa che si forma tra le persone. È raro trovare un film che indaghi in maniera tanto lucida e intrigante le profondità dell’animo umano, i suoi dubbi e propositi, le sue paure e disperazioni.

Non siamo tra i burattini pasoliniani di “Che cosa sono le nuvole?”, che si meravigliano della “straziante bellezza del creato”. Bensì, questi burattini-persone vivono la ancor più straziante realtà del voler essere altro, del voler cambiare, bloccati come si è in un mondo di finzioni e falsità.


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