James Blake – Infrangere gli echi della voce

Immaginate uno stagno limpido. Dapprima immobile, nelle acque cominciano ad apparire dei cerchi concentrici, sparsi ed effimeri. Li seguite con attenzione, vi accorgete che cominciano ad emergere delle irregolarità, delle mutazioni nello schema. Alcuni dei cerchi si espandono ruotando su sé stessi e lungo la superficie, altri eccedono nella metamorfosi, divenendo forme anomale e spettrali, mentre altri ancora precipitano e creano voragini nell’acqua. Lo stagno intero si agita e vibra di passioni: da una stanza sul fondale affiora e traspira la musica di James Blake.

Il percorso dell’artista londinese entusiasma dall’unicità: una catena di successi, di album ambiziosi, di canzoni assieme leggere e sperimentali, sempre al di là di ogni rigida classificazione.

Nel 2010 ha ammaliato con un trittico di EP il cui stile è stato definito post-dubstep, una sonorità che oltrepassava i tratti ormai scontati del genere. La frammentazione vocale e strumentale, la cadenza spezzata dei beat, riprendono gli esperimenti compiuti da Burial o dai Mount Kimbie.

 

 

Un anno di gestazione e arriva l’omonimo LP d’esordio. Siamo nella fase in cui si formano i delicati cerchi nell’acqua. Il canto etereo di Blake fuoriesce dalle maglie sintetiche che lo dissimulavano nei precedenti lavori; vi si intreccia e fonde, rivelandosi d’una purezza capace di commuovere e smuovere, con raffinatezza.

Le canzoni si rivelano man mano che procedono. Come lo stagno, prima echeggiano di battiti e della voce modulata di Blake. Sopraggiungono le prime mutazioni, e il minimalismo sonoro cede il posto a progressive, impalpabili distorsioni.

È quel che accade in “Wilhelms Scream”. O in “I Never Learnt to Share”: lungo tutta la canzone viene ripetuta la sconsolata e disincantata frase “my brother and my sister don’t speak to me / but I don’t blame them”, scortata da ritmiche ben mitigate e un crescendo di synth, che esplodono alla fine in un grido elettronico di amaro sollievo.

Con “Limit To Your Love”, cover di Feist, Blake affianca al suo calore vocale un impeto di bassi che ha dell’ipnotico. Un’addizionale, coinvolgente prova del suo talento, come del resto è l’intero disco, che si chiude nel solenne dub-gospel di “Measurements”.

 

Nell’opera seconda, Overgrown (2013), siamo nuovamente trasportati in una interiorità estrosa, timida, sorretta da una voce che ancora si lascia celare (e valorizzare) dalle striature digitali. Dopo il primo album, la possibilità d’evolvere c’era. Blake l’ha per certo colta, seppur senza uscire del tutto dalla sua comfort zone.

Arrivano anche le prime collaborazioni. Una, col produttore hip-hop RZA, cui esito è la mal riuscita “Take A Fall For Me”, che appaga solo nei limiti della base strumentale di Blake; il rap che la sovrasta è un fallimento, rendendo la canzone una macchia sulla tracklist del disco.

La seconda, con il leggendario Brian Eno: l’incontro tra i due geni si manifesta nella irruente cavalcata elettronica “Digital Lion”. Una gemma in cui è enfatizzata la capacità che ha Blake nel creare ritmi trascinanti, più vicini alle sue radici nella bass-music.

Vere punte di diamante dell’album sono però “Retrograde”, singolo d’anteprima ed epico capolavoro ricolmo di passione, e la traccia d’apertura “Overgrown”, commovente e soave riflessione sullo stato assegnatoli dal mondo della musica, al quale risponde “I don’t wanna be a star / But a stone on the shore”.

 

Col terzo album, lo stagno si tinge appena di colori, mentre il fondo ne rimane immacolato. In The Colour in Anything (2016), Blake affina le sue capacità compositrici, e assieme amplia i sodalizi artistici. tra cui spiccano quelli con Frank Ocean e Justin Vernon.

Le origini dubstep si ammorbidiscono, sebbene non vengano abbandonate del tutto (come testimonia nella superba “Timeless”). L’isolazionismo che lo connota persiste, ma Blake sente di volersi aprire, confessare. Decide di lasciare maggior spazio al puro strumentalismo, alla voce angelica, ad una rinnovata attitudine cantautorale.

È esempio di questa direzione l’intensa “f.o.r.e.v.e.r.”, dove la voce accompagnata solo dal pianoforte si espone, in una tremante critica dell’eterna durevolezza dell’amore.È ancor più asciutto e posato nella conclusiva “Meet You In The Maze”, canto a cappella in vocoder sull’accettazione, sulla messa in prospettiva della musica rispetto alla vita che sta vivendo.

Blake supera sé stesso e ogni attuale classificazione. Si lancia in toccanti e celestiali ballate (“My Willing Heart”), in ossessive e dolorose discese nella propria intimità, tra cori incalzanti di sintetizzatori (“Radio Silence”).

The Colour In Anything è l’opera di un artista in continua evoluzione, uno dei pochi ad innovare e sorprendere nel panorama musicale di questo decennio.

 

Fonti: Bio, intervista Pitchfork

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