Parole in libertà

La verità è che l’italiano è una lingua complicata. Questo perché chiunque, nel corso degli anni, l’ha cambiata, modificata, ha cercato di adattarla a un uso prima elitario, poi popolare, poi di nuovo elitario e così via. Le Tre Corone: Dante, Petrarca e Boccaccio. E poi il volgare, Leon Battista Alberti. Poi le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo, prima ancora Fortunio. Ognuno ha dato la propria personalissima interpretazione di quella che avrebbe dovuto essere la lingua del nostro Paese, ognuno ha aggiunto, criticato, migliorato il lessico, le lettere, il modo di scrivere e di parlare. Una lista infinita, o quasi.

E un’altra grande verità è che l’italiano ha un altissimo numero di parole. Moltissime parole che combinate insieme, per la proprietà transitiva, danno vita a moltissime frasi. Una scomodissima verità, perché lascia un po’ l’amaro in bocca pensare di utilizzare solo una minima parte, la più piccola di un immenso vocabolario. E anche chi legge, si informa e cerca di usare un lessico forbito, deve arrendersi di fronte all’idea che la lingua italiana si rigeneri continuamente creando nuovi termini, nuove parole. Basti pensare a petaloso.

Ma comunque, continuando con la proprietà transitiva: moltissime frasi che danno luogo a moltissime incomprensioni. Non si tratta proprio di proprietà transitiva forse, diciamo un corollario. Incomprensioni su incomprensioni che danno luogo a litigi, litigi che creano parole in libertà, che violentano senza pietà il nostro meraviglioso vocabolario.

Ed è un vero peccato.

Soprattutto perché basterebbe fare un po’ di attenzione per evitare tutto questo. Non parliamo dei litigi, quelli hanno indiscutibilmente una buona dose di fascino. No, cinicamente, ci riferiamo unicamente al vocabolario: perché maltrattarlo, violentarlo, svalutarlo, offenderlo, umiliarlo, soprattutto se con una mossa si potrebbe ottenere non solo di far respirare un po’ la nostra bellissima lingua, ma anche, perché no, un po’ di quieto vivere? Due piccioni con una fava.

E la fava, in questo caso, sono le frasi.

Non hai capito, per esempio. Difficile trovare una frase più brutta di questa. Cerchiamo di analizzarla. Non-hai-capito. Innanzitutto, due personaggi: un emittente e un destinatario. L’emittente: una persona infastidita, stizzita, con le vene gonfie e i denti stretti che, in maniera subdola, non attacca direttamente il suo interlocutore ma preferisce servirsi di un’arma più sottile, più crudele: la parola. E non di una parola qualunque, il sadico emittente fa appello alla non-comprensione del destinatario, gettando le basi con l’ignosco latino, ossia il non conosco, per poi dare il colpo di grazia dichiarando che non solo il suo interlocutore non conosce, ma addirittura non capisce. La descrizione del destinatario, a questo punto, risulta superflua: un ignorante privo di qualsiasi dote intellettiva. Ignorante e, per di più, stupido. Un uomo distrutto, insomma. E fin qui la storia può avere dei risvolti divertenti. Il problema è che, come tutti gli uomini feriti nella propria dignità, il nostro destinatario non potrà far altro che reagire, e la sua reazione non sarà esattamente in linea con quello che i padri della nostra lingua hanno cercato di fare con l’italiano. Ecco la violenza di cui parlavamo: un vocabolario ridotto all’osso, sintetizzato al massimo. Un vero peccato.

Come evitare questa carneficina, questo massacro di parole, questa strage di vocaboli? Quattro parole in fila, semplici, musicali, armoniche, gentili:

Non  mi  sono  spiegato. Bello, giusto, anche più elegante.

Da un emittente superbo, a uno umile: non ho capito. Chiunque converrà che si può fare di meglio. Non ho capito mette in primo piano chi parla ma ha molte sfaccettature, una più triste e sbagliata dell’altra: non ho capito perché tu non ti sai spiegare, non ho capito perché il filo dei tuoi pensieri è troppo complicato per me, non ho capito perché non ho voglia di capirti. Brutti, bruttissimi pensieri espressi in modo assolutamente vergognoso. Non va bene. Non ho capito è sciapo così, da solo, ha bisogno di un contorno. Non ho capito, potresti rispiegarmelo? Così è già meglio. Ma se di emittente umile parliamo, potremmo fare leva su questa umiltà e indurlo a dire non stavo ascoltando. Bello, meraviglioso. Fastidioso forse, ma almeno sincero. Dopotutto, la non-comprensione non deriva il più delle volte dal non-ascolto? Oltre al fatto che, tornando al vocabolario, alla base della comprensione c’è e deve esserci, per forza di cose, l’ascolto. Come alla base di quasi tutti i rapporti umani.

I rapporti umani, ecco: parliamone. O discutiamone, creiamo un dibattito, confrontiamoci, svisceriamo i problemi, analizziamoli, guardiamoli in faccia. Quanti meravigliosi modi di esprimere un concetto, con la lingua italiana. Parlare di un argomento, di un problema, significa fare un’analisi linguistica in primis –che è quella che ci interessa-, ma anche un’analisi introspettiva, con sé stesso e con il proprio interlocutore. Ma questo è secondario, non è nostro compito analizzare i rapporti umani, se non in una chiave prettamente linguistica. Ma la lingua, la bellissima e complicatissima lingua italiana, in un dibattito può essere capovolta, usata in maniera arzigogolata, forbita, pomposa, sintetica, piccolissima e grandissima. L’importante però, la conditio sine qua non per onorare il nostro vocabolario, è non incorrere nell’insulto. E non svalutare il prossimo. Perché per svalutare qualcuno bisogna usare un linguaggio estremamente basso, infimo. E, sempre per la proprietà transitiva, otterremo che svalutando qualcuno, svaluteremo la lingua stessa. E se la prima condizione non è poi una novità, la seconda non possiamo proprio accettarla.

Ancora: ti sbagli. Grammaticalmente impeccabile: seconda persona singolare presente indicativo, una constatazione; in questo determinato contesto, io-ho-ragione (diretto corollario del ti-sbagli).  Un po’ spocchioso, ma la morale non ci interessa. Ti-sbagli: quanta povertà! Vediamo i nostri personaggi, ancora una volta: un emittente superbo che ritiene il suo destinatario incapace non solo di sostenere una propria tesi, ma anche di comprendere il motivo per cui si-sbaglia. Un destinatario in preda a crisi di depressione, ormai. Umanamente parlando, un disastro. E la lingua, in tutto ciò? La lingua non esiste, non può esistere: non vale la pena parlarne, discorso chiuso: tu ti sbagli e io ho ragione. Punto. Riassumendo, abbiamo un emittente superbo, un destinatario depresso e un vocabolario avvilito. E anche l’emittente, apparentemente così gonfio d’orgoglio, in realtà non fa che mostrare la propria incapacità di confronto: prevale nella conversazione, ma cosa vince? Il silenzio del suo interlocutore? Una vittoria mutilata.

Non la penso come te. Ecco la soluzione: non più un personaggio pensante, ma due: emittente e destinatario. Entrambi con le proprie idee; diverse ma ugualmente valide. E il vocabolario tira un sospiro di sollievo: perché non la pensi come me? Cosa pensi tu? Cosa non condividi del mio discorso? La conversazione procede, le parole sono in salvo, la lingua va avanti.

Questo articolo non vuole essere un pretenzioso esercizio di stile –o forse sì, ma anche se fosse facciamo appello alla libertà di stampa-, né un galateo del linguaggio: ognuno parla come vuole, ognuno si esprime come desidera e se qualche lettore vuole dire al suo interlocutore non hai capito, deve sentirsi libero di farlo. Probabilmente non avrà rapporti futuri con il suddetto interlocutore, ma può stare tranquillo sul fronte linguistico: non avrà litigato con il vocabolario italiano, avrà rispettato tutte le sue regole e pronunciato una frase costruita in maniera impeccabile. Nonostante questo, il lettore in questione sappia che così facendo non avrà sfruttato al meglio la sua lingua, l’avrà semplificata al massimo, così come avrà semplificato un concetto molto complesso, come può essere la (non) comprensione. Insomma, avrà sprecato un’occasione, l’occasione di Parlare Bene. E non è poco.

Niente terrorismo contro il non hai capito, dunque, né contro gli altri modi di dire. L’importante è che queste frasi vengano pronunciate con contezza, che l’emittente sia consapevole delle pene che sta infliggendo al suo destinatario, che la sua intenzione sia proprio quella di farlo sentire un ignorante. Perché magari se lo merita. È un peccato, però, se queste formule vengono usate con sciatteria, perché non si ha voglia di pensare o di cercare nella propria testa altri modi per esprimere un concetto, perché si è troppo pigri per apprezzare e onorare la ricchezza dell’italiano. Ecco, in questo caso si passa dalla parte del torto. Perché se la pigrizia fosse stato l’alibi tutti i padri della nostra lingua, parleremmo ancora il latino. Insomma: un vocabolario è una cosa seria, la lingua italiana è una cosa seria così come lo sono i rapporti umani. E, come tali, forse dovremmo imparare a prendercene cura.

Un ultimo esempio.

Grazie. Una delle parole forse più usate nel nostro vocabolario. Grazie di avermi prestato la macchina, grazie di aver lavato i piatti, grazie di essere mio amico. Un evergreen, insomma. Come il prezzemolo, grazie sta bene con tutto. (Tranne che con la carne. No, davvero: non mettete il prezzemolo nella carne, mai. Però se provate con un pizzico di grazie, magari ci sta bene). Ma come rispondere a una persona che ci dimostra la sua gratitudine, spalanca la bocca in un sorriso e, con gli occhi pieni di ammirazione, pronuncia un genuino e sincero grazie? È indubbiamente imbarazzante. Prima opzione, un sorriso di circostanza. Ossia, l’annichilimento delle parole, il mutismo. Un vocabolario mutilato, distrutto, in lacrime, disperato. Secondo, un banale figurati. Freddino però, niente di particolare, poco pathos e poca, pochissima inventiva. E di che non avrà commento perché, davvero, non lo merita. Ma niente funge da paciere, niente solleva gli animi –e i vocabolari- più di un grazie a te. Di cosa non importa: di aver trattato bene la mia macchina, di aver mangiato quello che ho cucinato, di ricambiare la mia amicizia. E di avermi ringraziato, infine. Grazie-a-te, e un sorriso appena accennato. Basta poco per rendere felice il nostro vocabolario.

E, forse, anche le persone.

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