LA PAROLA A UNA REDUCE

È un caldo mercoledì settembrino, nel primo pomeriggio. Aspetto Rebecca Zaccarini, la coraggiosa intervistata, stando seduta in veranda. Rumino le domande che dovrò farle e mi chiedo per un attimo se queste possano essere troppo rudi o irrispettose, per una ragazza che è comunque stata malata.
Ripenso alla nostra telefonata, quando, da cortese sconosciuta, le ho chiesto di parlare del suo male.
“Vorrei che tu mi raccontassi della tua malattia”, le ho detto. “Chiacchieriamo dell’anoressia, semplicemente”.
Lei con la voce ha sorriso ed ha accettato.
Il campanello suona, apro la porta e la introduco in casa: è una ragazza magra ma in salute, scattante e vitale. Di primo acchito non si direbbe che abbia sofferto.
Sono molte però le sensazioni che si mascherano e il dolore, si sa, fortifica.
Ci sediamo davanti a due caffè.

Perché hai accettato di sottoporti a quest’intervista?

Perché le persone sono stupide, ci sono sempre più casi di anoressia, soprattutto tra i giovani. Non penso che un’intervista possa cambiare le cose; tuttavia sono passati molti anni da quando sono stata anoressica, avevo tredici anni allora, e ho avuto la possibilità di riflettere molto. Ora sono in grado di parlare, di raccontare.
Ho già partecipato a qualche congresso sull’anoressia, prendendo parola. Ho capito che chiunque può finire rapito da questo male strano.
Mi sento in dovere di dire la mia, è giusto che sia così.
Dopo di me, tutte le mie tre sorelle sono diventate anoressiche, quindi questo problema mi tocca veramente nel profondo. Sono certa che non sia stata colpa mia, ma conosco questa malattia, ci sono a stretto contatto pur essendone uscita, è una bestia nera, maledetta. Devo parlarne, e non solo per il mio bene.

Quando è cominciato il tuo disturbo? Ricordi per quale motivo?

 Avevo tredici anni e non ero assolutamente grassa, stavo benissimo. Sono sempre stata molto indipendente, dai cinque anni ho rifiutato coccole, attenzioni, vezzeggiamenti. Parlavo persino di università, fai tu! Rigettavo l’affetto, ho quasi saltato l’infanzia. Pensavo troppo, e dai sette anni fino ai tredici è stato il periodo in cui ho letto più libri, forse persino più di adesso.
Dopo appunto lo sviluppo, e io non lo volevo, mi mancava qualcosa. Ho trovato nell’anoressia il modo per mostrarmi, per farmi vedere.
Inoltre osservavo il mio corpo cambiare, non ero pronta a questo salto. Ero cresciuta troppo velocemente con la mente, ma il corpo era rimasto indietro e quando questo si è fatto sentire, io non l’ho accettato.
Mi sono ammalata quasi inconsapevolmente, non cercavo nella bellezza delle modelle una bellezza ideale, non avrei mai voluto tutto questo.

 Spesso si dice che le persone anoressiche dimagriscano solo per scomparire dal mondo, cosa pensi di quest’affermazione?

Più che scomparire, ti scompare il sorriso. Non ci sei più come persona, non apprezzi più nulla, non ti interessi di nulla. Per me non è stato così, non volevo scomparire, anzi, volevo essere amata.
Perdonami, ma ricordo poco di quel periodo, solo quest’estate, quando la più piccola delle mie sorelle ha cominciato ad avere problemi alimentari, mi sono tornate alla mente tutte insieme le esperienze vissute.

Quando stavi male, l’essere definita malata, che effetto ti faceva?

(Ridacchia) M’incazzavo come una iena: inizialmente non mi rendevo conto di essere malata, non lo sapevo, non lo volevo sapere. Anche dopo il ricovero rigettavo l’idea di essere clinicamente malata. Non mi definivo malata, ma anche qui ho un vuoto. Sono dovuta andare a sbattere violentemente contro il mio malessere prima di accettarlo e voler guarire.

Non mangiare, che sensazioni ti provocava?

Mi provocava una sensazione di forza, si guarda gli altri mangiare quasi dall’alto in basso. Loro hanno bisogno di nutrirsi, tu no; anche se alla fine non si ha bene idea se il bisogno sia stato completamente sedato, è tutta una questione mentale. Sopra ogni cosa però, e credo che questo sia comune a tutte le persone che hanno o non hanno avuto disturbi alimentari, io mangiavo attraverso quello che mangiavano gli altri. Vederli nutrirsi mi appagava, e la mia fame diventava la loro: se questi non si nutrivano o si nutrivano meno, andavo in panico.

Nel tuo presente, quali segni ti ha lasciato la malattia?

A livello mentale, sicuramente l’insicurezza. Io sono molto ottimista nella vita, sono anche sicura di me come entità pensante, come interiorità. Come persona fisica no, capita spesso che io mi trascuri, gli specchi quasi li ignoro.
Per quanto riguarda il fisico, tanti, tantissimi danni. Cerco di dirlo a mia sorella in tutti i modi, ma la prima malignità che la malattia attua è un’assoluta sordità. Mi chiede rabbiosamente cosa possa saperne io, che sono una malata, sebbene io sia guarita. Io vorrei solo aiutarla, ma so che farà da sé, non posso intervenire sino al collasso.
Ad ogni modo, lo stomaco innanzitutto. Molto piccolo, si chiude facilmente, soprattutto quando sono nervosa. Il mio metodo è fare tanti piccoli pasti, o mangiare molto lentamente, piuttosto che tre pasti completi e sentirmi gonfia e nauseata.
Ho perso i capelli, e il mio cuore comunque ha subìto dei danni, gli ormoni si sono affievoliti: ora sto bene, ma ho sofferto di amenorrea (mancanza di ciclo N.d.R). Anche le unghie, agli alti stadi della malattia, ne hanno risentito, così come le ossa e i denti.
Cosa senti di aver perso, con la malattia?

La naturalezza, la naturalezza di mangiare assieme agli altri, di godermi un pasto, di esistere. Provo una certa malinconia nel vedere gli altri che, inconsapevoli di sé, sono spontanei e allegri.
Dopo la malattia è possibile imparare nuovamente a vivere, a nutrirsi, ma è comunque qualcosa di artificioso, qualcosa che si ha appreso a fatica e non vissuto sin dalla nascita.

Definisci, attraverso gli occhi dell’anoressia, il cibo.

Carburante, insapore, nulla più.

Definisci, con una parola, il tuo corpo.

Effimero.

Come hanno reagito i tuoi genitori, quando hanno scoperto il tuo male?

Ci hanno messo un po’ a capirlo: mi hanno sempre dato molta libertà, pur insegnandomi tanto.  Quando l’hanno compreso, ovviamente si sono preoccupati: mia madre ha faticato ad accettarmi come malata, ha faticato ancor più di me.
Il nostro rapporto era pieno di asperità: litigavamo spesso, più bisticciavamo meno mangiavo, in un certo senso come rivalsa, quasi per farle dispetto. Era una specie di rimbalzo d’ansia, scaricavamo l’una sull’altra le nostre paure, ora il nostro rapporto è molto migliorato.
Mio padre invece è sempre stato un uomo molto paziente e silenzioso: ha sempre dato, alle mie sorelle e a me, ascolto senza giudizio. Con lui ho parlato molto, stringendo un fortissimo rapporto.

Racconta l’episodio peggiore della malattia e quello migliore della guarigione.

Il momento peggiore della malattia è stato…(tentenna) appena prima di essere ricoverata, tre giorni prima. Ero impazzita, avevo perso il controllo, non capivo. Non mangiavo e non bevevo appunto da tre giorni e non sapevo nemmeno perché, stavo camminando in cerchio attorno a casa, completamente folle; ero un fulmine che girava, quello era l’unico modo per far tacere i pensieri che avevo in testa.. Hanno dovuto caricarmi in macchina e portarmi via di peso. Mi hanno ricoverata d’urgenza, per prelevarmi il sangue mi hanno bucata ovunque (ride, nervosa)…Non avevo nemmeno più il sangue, capisci?
Sono stata quasi felice che qualcuno facesse qualcosa, no?
(Prende una pausa, riflette.)
Il momento migliore quasi coincide con quello più buio: un messaggio del mio migliore amico.
Premetto che le mie sorelle e la mia famiglia hanno fatto tantissimo per me, ma ricordo distintamente quel momento: ero in ospedale, dopo quei tre fatidici giorni, mi stavano portando a Bologna per una visita. Il mio migliore amico mi ha scritto: mai è così buio prima che spunti l’alba. Non so perché, quel messaggio lo ricorderò per sempre, ci ho pensato e mi sono detta che quel fatto, dell’alba, del momento delle tenebre, avrei dovuto ricordarmelo. Sul momento forse non avrei potuto capirlo, ma ero sicura che, prima o poi, l’avrei pienamente compreso.

Durante il tuo percorso di guarigione, sarai stata sicuramente seguita da specialisti. Come ti sei trovata? Ti hanno effettivamente aiutato?

Sono stata seguita da tutti gli “ologi” e tutti gli “atri” possibili di questo mondo: ho iniziato con un dietologo e una psicologa dello Spazio Giovani, non volevo andarci. Pensa, a tredici anni dallo psicologo, è quasi una vergogna, lo vedi per i malati di mente. Per un mese e mezzo o due andavo alle sedute e non parlavo, anche per sfida, e nemmeno lui parlava. Stavamo in silenzio, m’incazzavo tantissimo.
A un certo punto mi sono talmente arrabbiata che ho iniziato a raccontagli tutto: questo psicologo era molto bravo, mi ha voluto bene e mi ha seguito benissimo, per due anni.
All’ospedale c’era una neuropsichiatra assai capace, anche lei mi faceva alterare tantissimo, ho bisogno di persone che mi mettano alla prova, che mi sfidino.
Più di tutti un dottore, che purtroppo non riusciamo più a contattare per mia sorella, era una specie di nutrizionista. Era uno stronzo, mi provocava, mi faceva piangere, mi insultava persino! Però lui mi ha aperto gli occhi, mi ha mostrato un mondo.
Gli psicofarmaci, altra brutta questione. Ne avevo bisogno in quel momento, li ho presi durante la mia ripresa. Ero in un momento strano, dopo aver rifiutato tanto l’aiuto degli specialisti che ero giunta al punto di averne spasmodicamente bisogno, non volevo più sentirmi pensare.
Avevo quindici anni: mi hanno aiutata, in un certo senso hanno avuto un effetto quasi  contenitivo.
Uscirne è stato complicato: un periodo orrendo, ero triste, molto, dentro. Non avevo un motivo preciso per esserlo, ma avevo degli svarioni pazzeschi, vuoti di memoria.
Non ricordo nemmeno come sia stato smettere di assumere farmaci, ero sempre seguita a Bologna e le visite sono diventate sempre più sporadiche, ma non ricordo nulla.
Quando mi hanno rilasciata non ero per nulla guarita, dall’anoressia non si guarisce mai.
Dopo otto anni posso fare un piccolo urletto di vittoria: sono più consapevole di quel che voglio e di quel che sono, e m’importa molto meno del cibo, del fisico. So gestirmi meglio. Voglio amarmi di più.

A chi dedicheresti le tue parole?

Alle mie sorelle, sì, a loro.

L’intervista si conclude così, con il suo sorriso amabile e gentile, permeato di malinconia; ci alziamo e ci congediamo: scivola leggera sulla cresta della vita e delle parole pronunciate con la sua voce tra la timidezza e la baldanza.
Più la guardo più mi pare una reduce dopo una grande guerra: indossa con dignità le ferite di una malattia che viene presa troppo poco sul serio. Il potere che ha la mente di agire su ciò che sarebbe giusto, sulla razionalità, è immenso.
Rebecca è stata coraggiosa, è uscita da una spirale tanto forte in quanto nutrita dalle sue stesse paure. Ha scritto negli occhi un futuro radioso, e io credo l’avrà.

Eleonora Casale

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