Etimologia

Il mio primo ricordo d’infanzia è la bocca di mia madre, solo questo.

Con il passare degli anni ho imparato anche a riconoscere i suoi occhi piegati verso il basso, come fossero sempre leggermente intristiti, il naso aquilino e gli zigomi accennati, che davano a quel viso troppo ovale dei tratti di deformità.
Tuttavia la prima, in assoluto la prima cosa che mi sovviene alla mente quando ci penso è quella bocca sottile, sempre umettata di saliva o lucidalabbra, l’afrore del suo alito quando si piegava su me per cullarmi.
Sapeva di tacos e sigarette.
Quella bocca non ha smesso di tormentarmi per tutti gli anni della mia crescita: la vedevo muoversi, aggrottarsi, scandire, dilatarsi.
Un giorno le chiesi se fossi uscita da lì, appena nata, dalla sua bocca.
Ricordo si sconvolse un pochino, e non mise più il rossetto.
Lo sapete che la parola “bocca” ha due possibili derivazioni? Potrebbe, e probabilmente è così, derivare dal latino buca, bucca, ma la cosa affascinante è che molti etimologi ritengono che potrebbe avere una radice prettamente onomatopeica, da buk, che è allargamento di bu, ossia mandare un suono. Si ritrova quest’ipotesi nel sanscrito bukkara (abbaiare, muggire), dal greco buk-tes (ululo/ululante) e tanto altro ancora che ora non ricordo, o non ho voglia di ricordare.
Resta il fatto che quella bocca abbia segnato, in qualche modo, il mio percorso evolutivo.
E dopo la bocca vennero, come conseguenza diretta, le parole: quando le amiche di mamma si trovavano in casa mia per mangiare biscotti, tracannare tè in barba all’eleganza del gesto, io le ascoltavo parlare.
Sentire quel cicaleccio e analizzarlo, scindere le parole in singoli fonemi, articolazioni che si muovono ed aria emessa  a formare un suono con il quale amiamo, inveiamo, piangiamo e preghiamo, tutto questo era per me la massima aspirazione, il sommo divertimento, il totale abbruttimento.
Ero abbastanza grande per capire il soggetto delle loro discussioni infervorate: «Donna Moderna», Fabrizio Corona, il concerto di Liga, la plastica al seno.
Nulla di male con «Donna Moderna», beninteso, certe volte lo leggo anch’io, soprattutto l’oroscopo; mi piace credere ci sia ancora un certo margine di sconosciuto in un universo nel quale tutto è spasmodicamente disvelato.
Comunque: finito il liceo non ebbi dubbi, m’iscrissi a Lettere Moderne, indirizzo Filologico-Letterario, e m’innamorai dell’assistente del professore di linguistica italiana.
Sì, bene per l’assistente, ma cosa ti servirà la linguistica nella vita reale? Secondo te i moduli della banca dovrai scriverli in alfabeto IPA? Le università italiane sono proprio in crisi, non s’insegnano più i valori pratici di una volta. Ma quando mai? L’università è sempre stata una masturbazione mentale per cervelli mediamente intelligenti e, eccezion fatta per le facoltà scientifiche, mediche e balle varie, chi studia materie umanistiche lo fa solo per cultura, per amore, per svogliatezza, per sfregio.
“Ecco mamma, mi sono iscritto a Filosofia, e mò che mi dici?”
Torniamo tuttavia in gran carriera su Guido Marazzini, l’assistente.
Non ho mai riflettuto sulla sessualità: ho sempre trovato lo sfregamento compulsivo come qualcosa di assolutamente inconciliabile con le parole e la loro forza, mi suonava strano che quelle vocali e consonanti tanto alte, dalle quali sono nati i più grandi capolavori d’oratoria e di letteratura, si trasformassero inesorabilmente in gemiti e mugolii disarticolati, tanto animaleschi e distorti.
Con Marazzini andò male, andò veramente male, e non tanto per una sua scortesia, no, era un pezzo di pane.
Credo sia stata io a fare pasticci.
Mi spiego: una sera, dopo indicibili papiri telematici d’amore e attrazione, mi chiamò. Sudavo freddo: ho sempre odiato stare al telefono, non mi piace il surriscaldamento dell’apparecchio contro l’orecchio, detesto anche il fatto che si sporchi immancabilmente del fard che metto sul viso, e che io poi sia costretta a pulirlo, inoltre mi sembra quasi una magia sciamanica questo parlare senza vedersi, senza toccarsi, senza osservare la bocca dell’altro che scopre i denti, sorride, vocalizza. Più del telefono, odio Skype.
Quando pigiai quel maledetto tastino verde ed appiccicai la cornetta all’orecchio, la sua voce era diversa. Diversa dalle lezioni, diversa da quando prendemmo un caffè, diversa e basta. Era morbida, profonda, le parole scandite a fatica.
— Ciao Iblis
(Mi chiamo così, e allora?)
Risposi con tono quasi robotico, masticando le parole, gli chiesi come fosse andata la sua giornata.
— Niente di che, solite scartoffie e gente che arriva al preappello senza saper declinare mezza parola. Insomma, se ti presenti prima dell’appello vero e proprio devi avere davvero una buona volontà, non ha senso arrivare lì e fare i cretini. La mia fiducia negli studenti si affievolisce sempre più.
Non riuscii a dire nulla di generico che si accomodasse bene a una conversazione di piacere.
— Sono solo a casa, ti penso.
Sentii qualcosa di spiacevole in quel “ti penso”, ma finsi di sorridergli e gli chiesi come mai fossi la regina dei suoi pensieri.
— Come sei vestita?
Abbassai lo sguardo: un paio di orribili pantaloni del pigiama, decorati con sorridenti faccioni di mucca, una grossa felpa sformata, forse di mio padre e, come ciliegina sulla torta, delle pantofole della Defonseca, verde acceso.
Ricordatelo, signori: le donne, la sera, non indossano eleganti desabille in seta nera, sotto il vestito niente, questo è il sogno di ogni uomo. Una grossa fetta della popolazione femminile, invece, sotto il vestito ha collant tirati su fino alla vita (che non smettono mai di scendere, creando un senso di fastidio estremo), intimo non coordinato e, d’inverno, una buona quantità di peli.
Per evitare menzogne, rimasi in silenzio e così fece lui. Nel mio cervello rimbombava la domanda che Guido mi aveva posto, ma non più l’essenza, il significato, ma la forma.
Come
Sei
Vestita
?
Erano parole talmente semplici e umane, naturali, lettere, foni su foni a formare una spirale interrogativa che mi avvolgeva completamente.
— Dimmi altro — Gli chiesi, ordinai, e il mio tono era divenuto più audace.
— Scusa? — fu la sua risposta, e la voce del mio cavaliere avvolto da uno sciame di allocuzioni si era fatta più spenta, diffidente, meno charmant.
— Parlami del dittongamento spontaneo — urlai, sentendo il mio corpo accendersi di un sentimento nuovo, eccessivo e osceno, eppure bellissimo, — parlami del nesso consonantico, del vocalismo tonico siciliano, dello schwa, parlami ti prego.
Mi sentivo pura energia: le frasi davanti ai miei occhi si scomponevano e ricomponevano con nuove forme, si spogliavano come delle ammiccanti Salomè, mostrandomi le loro nudità segrete.
Dall’altro capo del telefono non arrivò risposta.

Da quel giorno cominciai a prendere coscienza del mio problema, se così vogliamo chiamarlo. Lessi tutti i capisaldi dell’erotismo, pur di sbrogliare quella matassa che erano le mie domande.
Saffo, De Sade, Miller, Nin, Von Sacher – Masoch, a tratti Bukowski, nessuno seppe darmi la risposta.
Altro nota bene: Saffo non è prettamente erotica, anche se tutti l’hanno classificata come tale, era una donna brutta e innamorata della bellezza, e questa differenza tra essenza e tensione fa scaturire un dolore inimmaginabile. Miller mi sta antipatico, quindi non ne parlerò. Nin ha scritto perché Miller non avrebbe avuto il coraggio di scrivere un romanzo erotico, e allora via a situazioni oscene altamente elettrizzanti. Un modo per dimostrare chi portasse i pantaloni, o chi se li sapesse togliere per primo. De Sade certo, pazzo maniaco erotomane, come volete, ma gran parte della sua follia è metafora e denuncia ad un tempo bigotto. De Sade è il più figo di tutti.
Von Sacher – Masoch, un romantico tedesco innamorato dell’amore e della sofferenza: l’erotismo è racconto del sé, è espressione di una rivalsa contro qualcosa, che sia la società, le proprie paure o il proprio corpo che non rispecchia il contenuto dell’anima.
Non amo ricordarmi, ma in questo caso lo farò: lezione di filologia italiana, primo semestre.
Era stata una notte piovosa e nell’aria si scorgeva una bruma sottile, un po’ malinconica. Ricordo dei dettagli assolutamente accessori, il mio cappello rosso e la sciarpa che mi ero cucita per conto mio, una massa informe di lana e buona volontà.
— Bene, le nove sono passate da un po’, possiamo cominciare. — La voce del professore tuonò nell’aula, e io tirai fuori il blocco appunti e la penna, pronta a dare il meglio di me.
— Oggi, tratteremo della trasformazione che le parole hanno avuto durante la caduta dell’Impero Romano. Prendiamo come esempio il cavallo. La parola cavallo ha corrispondenza in quasi tutte le lingue europee, ma, guardando in un qualunque dizionario di latino, noi troveremo sempre e soltanto equum a definire il cavallo.
Ero già stata ad altre lezioni di filologia, nulla di spiacevole era accaduto.
Quella volta, tuttavia, percepii uno strano calore alla punta dei piedi, ed un formicolio insolito ed inaspettato che dalle ginocchia si diramava per tutte le cosce, intrufolandosi e stridendo, strappando, avvolgendo.
— Dobbiamo tuttavia cercare meglio, questo è il lavoro del filologo: nell’antica Roma, l’equus era il cavallo dei pretoriani, il cavallo da guerra e da parata. Esisteva anche il caballum, ma era una parola destinata a definire solo il cavallo da traino.
Ancora quel formicolio, ora più intenso, mi scoprii arrossata e leggermente tremante, gli occhi annacquati.
La voce del professore si fece sempre più distante, mentre il palpito continuava a crescere. Mi ritrovai a fissare con sguardo inebetito una delle casse che stavano a lato della grande cattedra, nella mia testa partì un conto alla rovescia lampo.
3
— Essendo dunque il medioevo, un periodo di feudalesimo e non essendoci più una vera e propria milizia…
2
caballum
1
Socchiusi gli occhi, come per arginare la marea che sentivo alzarsi nel mio corpo. Ero epicentro di un piacere enorme, quasi sovrumano, sovrasensibile, animale.
Zero.

Tempo. Spazio. Spasmo. Orgasmo.

Che poi una cosa interessante, orgasmo è una parola di derivazione greca, orgasm-os, accento sulla penultima sillaba, dal tema org-ao che significa “essere intimamente sconvolto, essere gonfi, traboccanti”, il fatto più buffo ed affascinante è che orge, sempre in greco, perché da lì arriva tutta la nostra storia, poche storie, significa “ira”.
Non è intrigante che l’apice più alto del godimento sia linguisticamente associato con la rabbia distruttiva?
Probabilmente non lo è.

Perversione, dal latino perversus, rovesciato, travolto, corrotto.
Rimasi sconvolta dal cosiddetto “incidente” avvenuto alla lezione di filologia: avevo già provato piacere prima, ma a mente sgombra, mentre ora la faccenda andava sempre più complicandosi e divergendo, quasi traboccando. Avevo trovato il mio vero veicolo per il piacere, la strada che mi avrebbe condotto verso l’immensità.
Non ero certa di sapere come gestirla, tuttavia riuscii a sedurre e andare a convivere con quel professore di filologia, che tanto tempo prima era stato capace di farmi godere senza nemmeno sapere chi fossi.
Perché tutto questo? Mi annoiavo, tutti gli altri uomini mi hanno sempre annoiata, il sesso mi annoia, la meccanica non m’interessa.
A lui, e si chiama Italo, non importa come io sia, come mi ecciti, cosa indossi o con chi esca: è troppo vecchio ormai per riflettere su queste cose, gli basta sapere che, se dovesse morire d’infarto una notte, non sarà solo nel letto.
Sono le tre del mattino, e io scrivo seduta al tavolo della cucina, nella sua ma anche mia casa di campagna. Sto tenendo un diario: tutti i giorni mi conforto con il sapore delle mie stesse parole, questo è il mio modo di masturbarmi.
Questa mia “peculiarità caratteriale” non era mai stata messa su carta, nemmeno Italo lo sa, lo faccio ora perché ho imparato a conviverci, e ad apprezzare il lato poetico di tutto questo.
Quando sono le parole a farti godere, allora acquistano la crudità della loro essenza.
Amare le parole è come amare tutti gli uomini e le donne del mondo, perché le parole sono il più altro prodotto che la nostra evoluzione ci abbia dato.
(N.B. non so se l’uomo sia lo stadio finale dell’evoluzione, però ci siamo vicini dai.)
Ironia del destino: ora lavoro come sessuologa.
Unione di logos, parola, pensiero, e sesso. Per ascoltare i problemi degli altri e non i miei.
Meglio di così?


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