Il risotto alla milanese di Carlo Emilio Gadda: poesia nel piatto

Bisogna conservare una spiccata ammirazione per quelle penne che scendono nei bassifondi della realtà umana esaltandola e glorificandola con sublimi parole.

Non parlo in questo caso della miseria della condizione di alcuni tra noi ma, in particolare, di quei settori canonicamente snobbati dalla letteratura poiché non degni (secondo tradizione) di ricevere un ricamo scritto.

Voglio concentrarmi nello specifico su di un racconto di tema culinario, campo che certamente ha trovato ben pochi grandi autori nell’esporlo. Annovero tra essi sicuramente il vecchio Pellegrino Artusi, con il suo celebre ricettario, e ancora Brera e Veronelli con la loro Pacciada. 

Accompagno a questi il genio innovatore di Carlo Emilio Gadda che, nel 1955, regalò alla rivista dell’Eni Il gatto nero uno dei più illustri pezzi di cucina, che si incastona di diritto tra il “degno di nota” della letteratura italiana del Novecento.

Il protagonista del racconto è un piatto tanto noto quanto fintamente semplice nella sua realizzazione: il risotto alla milanese, che Gadda intitola Risotto patrio, sottolineando in partenza il valore culturale che tale piatto mantiene nel nostro paese.

A mio avviso i grandi pezzi andrebbero prima letti o uditi di getto, senza interruzioni, in modo tale che la piacevolezza delle parole che si incastrano tra loro non venga penalizzata. A tal proposito, vi consiglio di ascoltare questa lettura del pezzo trovata sul web, ad opera di Marco Balbi presso il Circolo Filologico Milanese. La sola lettura palesa la grandezza dello scritto, che scivola dispettoso e peperino nell’animo del lettore come un bicchiere di Barbaresco. Il testo mescola, nel suo sublime uso della lingua, divagazioni scientifiche ad altre di più modesta leva: abbiamo perciò la descrizione della più idonea qualità di riso da utilizzarsi nei suoi minimi dettagli, insieme alla divagazione giocosa-sentimentale sulla fine dei paioli di rame, e ancora l’atavico rito della conta delle stagioni in base ai frutti della terra che, giustamente, potranno essere uniti al risotto: funghi in settembre, tartufo dopo San Martino.

Uno stile aulico per un soggetto umile ma ugualmente nobile in quanto sostentamento ricco delle bocche sia dei poveri che dei più abbienti, entrambi capaci di migliorare e accrescere in quanto a gusto.

Gadda era certo un fine intenditore e ben sapeva quale affronto avrebbe significato una preparazione del risotto con ingredienti di bassa qualità. L’autore richiama allora in causa gli antichi riti e le epiche libagioni, con il rito del risotto che ritorna austera liturgia:

Quel che più importa è adibire al rito un animo timorato degli dei è reverente del reverendo Esculapio o per dir meglio Asclepio, e immettere nel sacro «risotto alla milanese» ingredienti di prima (qualità): il suddetto Vialone con la suddetta veste lacera, il suddetto Lodi (Laus Pompeia), le suddette cipolline; per il brodo, un lesso di manzo con carote-sedani, venuti tutti e tre dalla pianura padana, non un toro pensionato, di animo e di corna balcaniche: per lo zafferano consiglio Carlo Erba Milano in boccette sigillate: si tratterà di dieci dodici, al massimo quindici, lire a persona: mezza sigaretta. Non ingannare gli dei, non obliare Asclepio, non tradire i familiari, né gli ospiti che Giove Xenio protegge, per contendere alla Carlo Erba il suo ragionevole guadagno. No! Per il burro, in mancanza di Lodi potranno sovvenire Melegnano, Casalbuttano, Soresina, Melzo, Casalpusterlengo, tutta la bassa milanese al disotto della zona delle risorgive, dal Ticino all’Adda e insino a Crema e Cremona. Alla margarina dico no! E al burro che ha il sapore delle saponette: no!

Altro fattore che certo Gadda non trascura è la milanesità – ma potremmo estendere a “lombardità” di questo risotto. L’origine conta e ogni piatto conserva in sé il costume e la cultura di chi lo realizza:

Il risotto alla milanese non deve essere scotto, ohibò, no! Solo un po’ più che al dente sul piatto: il chicco intriso ed enfiato de’ suddetti succhi, ma chicco individuo, non appiccicato ai compagni, non ammollato in una melma, in una bagna che riuscirebbe schifenza. Del parmigiano grattuggiato è appena ammesso, dai buoni risottai; è una banalizzazione della sobrietà e dell’eleganza milanesi.

Per concludere, anche in questo breve scritto non manca la “gaddità” di Gadda, quell’inventare parole giocandovi, tutto suo. Ecco allora “l’aurato battesimo dello zafferano” o ancor più “l’apporto butirroso-cipollino” del soffritto.

Il suo stile impeccabilmente sublime genera un piatto gustosissimo per il lettore che, se ben accorto, dovrebbe goderne come assaggiando il più prelibato dei risotti. Non escludiamo a priori la grandezza di una lettura. La sublimità dello stile può nascondersi anche dietro un chicco di riso vialone!


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