Verso la libertà o il libertinaggio?

Per quanto con l’accezione del termine proibizionista il nostro vocabolario intenda riferirsi prettamente a quelle politiche che si impongono di combattere l’uso di sostanze dannose (o presunte tali) proibendone produzione, libero commercio e consumo, si vogliono indagare i retroterra di un fenomeno che sembra avviluppare molteplici tematiche e il cui risvolto legale appare manifestarsi semplicemente quale la punta di un iceberg in larga parte sommerso.

Pertanto poco interessa ai fini della digressione sindacare se le suddette politiche, a onta di quanto si prefiggono, incentivino l’espansione del traffico illecito e siano null’altro che l’esito ultimo di un assai poco credibile sventolio di bandiera facente perno su un’atavica esigenza di sicurezza – che sentiamo minacciata – o se, all’opposto, salvaguardino verosimilmente la nostra società dai mali della perdizione e del traviamento.

Ma come di proposito s’intende in questa sede tutt’altro che indugiare sulla questione già abbastanza inquisita, nonché abusata e maneggiata, del consumo di sostanze stupefacenti, più o meno invasive che siano.

Tant’è che di proibizioni, negli anni, abbiamo visto imporci un vasto ed eterogeneo assortimento. Basti pensare alle costumanze in merito all’abbigliamento e alle maniere comportamentali: non importa se suffragate o meno da preesistenti normative legali, a insinuarvi vigore vincolante era quanto fossero profondamente innestate nell’apparato sociale. È noto il mondo della moda si sia progressivamente rilassato (alcuni obietterebbero che questo rilassamento sia stato perfino eccessivo) in merito all’attenzione a rendere i suoi prodotti acconci al comune senso del pudore estetico, anticipando, in questo processo di liberalizzazione, altri ambiti del quotidiano invece meno propensi al cambiamento.

Si ricordi in proposito che la minigonna, prima additata a emblema di istigazione traviante e illecita, divenne popolare già negli anni ’60, e simbolo della Swinging London.

Ma fu ben prima, a partire dalla fine del XIX secolo, che i primi movimenti femministi iniziarono a protestare per la scomodità delle gonne allora in uso: costituite da tessuti pesanti, lunghe fino ai piedi, spesso indossate sopra sottovesti. La francese Hubertine Auclert arrivò a creare la Lega per le gonne corte, facendosi promotrice della diffusa rivendicazione di un abbigliamento che potesse garantire una maggiore libertà di movimento.

Negli anni dei movimenti sessantottini l’accorciamento divenne drastico in virtù dell’esasperazione di quel noto spirito di ribellione che animò le proteste del periodo (volto al poter mostrare liberamente ciò che prima era considerato scandaloso e volgare) e divenne simbolo della conquistata libertà sessuale femminile.

In sostanza (rielevandoci in questa considerazione a una visione più generale) si tende, spesso inesattamente, a porre la questione in termini di proibizionismo e liberalizzazione facendovi corrispondere quelli di proibizione e libertà, come se fosse un’inconfutabile equazione matematica. C’è da chiedersi se le apparenze non ingannino come suggerisce la vox populi, se qualche paletto etico tanto male poi non faccia e se talvolta, paradossalmente, il permissivismo e l’indulgenza non portino alla prigionia più subdola del lassismo. Al lettore la sentenza, forse nemmeno troppo ardua.


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