La (furba) conquista cinese del calcio meneghino

Essendo il calcio uno sport dove in massima parte possono maturare interessi e profitti, i cacciatori di tali interessi e di tali profitti sono giunti in Italia. Sono arrivati dall’Oriente più estremo, da quella incessante macchina operativa che è la Cina la quale, dopo decenni di dominio e successi economici maturati nell’ombra di una produzione rigidissima e forsennata, forti della loro miliardaria leadership, hanno scelto di entrare da protagonisti nel panorama della notorietà imprenditoriale italiana e quindi europea: tramite il calcio.

Non potevano che farlo partendo da Milano, città lombarda di immensa e gloriosa tradizione calcistica e (forse non a caso) dominata sempre più da riservatissime famiglie cinesi piuttosto che dai canonici meneghini Brambilla o Fumagalli.

L’Inter, il football club di antica fondazione borghese e intellettuale, già da alcuni anni si è data a conquistatori asiatici. Il pacioso presidente Thohir, indonesiano, rilevò gran parte delle quote dei Moratti ponendo fine alla lunga tradizione familiare (e italiana) del club, passato, con le dovute specifiche del caso, da una gestione da “ferramenta” o da “alimentari”, tradotta di padre in figlio, a una’impronta più propriamente consona a una società per azioni.

Con Thohir quell’approccio silente e affezionato del grande industriale che coccola il suo club di calcio come un figlio da viziare e soddisfare (spesso a proprio malgrado) è morto. Una gestione più fredda e numerica ha scalzato quella appassionata e coinvolgente di Moratti: non per forza più giusta, ma certo più umana.

La freddezza calcolatrice con cui l’indonesiano ha scelto di gestire il club la si è vista negli scorsi mesi quando, dinnanzi ai mancati profitti (certo sperati al momento dell’acquisto), ha scelto di cedere la maggioranza delle quote del suo club dopo nemmeno un lustro di gestione. Nulla a che vedere con gli sforzi compiuti dai Moratti, spinti solamente dal cuore. A prelevare queste cospicue quote sono stati appunto dei cinesi, il velato gruppo Suning, già proprietario di un club calcistico in Cina, ma anch’esso legato a un calcio dove questo diviene solo un veicolo per accrescere il proprio prestigio e il proprio capitale a livello mondiale.

Un destino non dissimile è toccato all’inizio di agosto al Milan, club che da trent’anni è proprietà di Silvio Berlusconi. Dopo lo scudetto del 2011, il Milan è crollato in una crisi tecnica e gestionale senza precedenti, figlia delle problematiche di liquidità che hanno investito la società e di una passione dirigenziale scaduta anno dopo anno in mesta sopportazione. In uno status certo indigesto per i suoi tifosi, abituati negli anni a sommi allori e splendidi riconoscimenti. Il Milan di Berlusconi è passato dall’essere una squadra pietra miliare del calcio mondiale, paragonabile per la rivoluzione del gioco che promosse negli anni ’80 e ‘90 forse al solo Ajax degli anni ’70 e all’ultimo Barcellona, a una compagine spenta, cupa, priva di voglia e di inventiva.

Così, gravata dai debiti e dalla scarsa voglia, la società è stata messa sul mercato e alla fine, dopo mesi e mesi di trattative con differenti interlocutori, la cessione è arrivata, ancora una volta a favore di cinesi. La cordata cinese che ha acquistato il Milan da Berlusconi per 740 milioni (così recitano i notiziari) è tanto oscura quanto ambigua, non essendo probabilmente mai entrata nel mondo del calcio prima (a differenza di quella interista) e forse intrecciata addirittura con il governo centrale di Pechino, i celeberrimi comunisti tanto avversati dal Cavaliere di Arcore.
Come tale cordata opererà in questo mondo ancora non è chiaro. Certo è chiaro che l’interesse che la muove è lo stesso di quella interista: fare cassa e ottenere successo.

Alla luce di questa analisi, una considerazione apologetica verso queste nuove società va condotta.
Gli acquirenti cinesi si stanno affacciando al calcio in una maniera non dissimile a quella dei grandi imprenditori italiani negli anni d’oro della prima repubblica. Anche nel nostro specifico caso il calcio funse da mezzo di approvazione nell’Italia che conta, conduttore di prestigio e acclamazione. Gli Agnelli investirono nella Juventus (anche) per tenere contenti e quieti i loro operai in Fiat, Moratti prese l’Inter per consolidarsi definitivamente nella Milano-bene dal rappresentante di combustibili che fu, Berlusconi scelse il Milan come ulteriore campo in cui far fiorire il suo impero economico, trampolino di lancio, insieme alla TV, per una notorietà che gli fu presto preziosa.

Tutti questi presidenti furono prima imprenditori e solo dopo patron, non scordiamo questo fondamentale dettaglio. Lo stesso lo stanno facendo oggi i cinesi in Italia, con una piccola differenza che non penso potrà essere colmata: la mancanza di passione.

Io non credo vedremo mai uno di questi nuovi dirigenti depennare il Mariolino Corso di turno dalla lista delle cessioni perché suo pupillo, temo non vedremo nessuno di loro impiegare i suoi calciatori in fabbrica per levarli da una guerra o pagargli di propria tasca un intervento al cuore. “Senza cuore saremmo solo macchine” recitava Shakespeare. Questo il calcio sta inevitabilmente divenendo. Una macchina costruita per fare soldi sfruttando i soldi e, come ogni macchina, da gettare al rottamaio non appena si inceppa.

Io sogno ancora uno scudetto a Cagliari figlio della voglia e paladino dell’oltraggio. Spero timidamente in un calcio combattuto in campagna e celebrato in città. Sogno e spero. Sogni e speranza che d’assegno in assegno si colorano di utopia.


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