LIBERTA’ VA CERCANDO, CHE E’ SI CARA, COME SA CHI PER LEI VITA RIFIUTA

Oggi il suicidio viene visto come il risultato estremo di una condizione di crisi esistenziale priva di vie d’uscita, a tal proposito James Amèry dirà che: “Chi non riesce più a trovare appagamento nel continuare a vivere, non riesce nemmeno ad attendere pazientemente la morte”. Eppure, è solo con il diffondersi del cristianesimo che il suicidio viene fatto oggetto di condanna, visto addirittura come peccato che può precludere la possibilità di accedere “al mondo dei cieli”.

In antica Grecia ad esempio, il suicidio era accettato, ed anzi, in certi casi elogiato, come estrema affermazione di sé (ricordiamo la filosofia stoica ad esempio).
Possiamo avere una più chiara idea di ciò nei miti e nelle leggende: Alcesti decide di morire al posto del marito e di affermare così il suo ruolo di donna, madre e moglie, Aiace si getta sulla spada poiché non riesce a sopportare la vergogna di essere impazzito e di aver fatto strage di buoi, pensando fossero i nemici Achei.
Si dovrà arrivare all’Edipo di Sofocle per vedere la cosa sotto un altro punto di vista: Edipo, dopo aver appresso di aver ucciso il padre e di essersi unito alla madre, non decide di togliersi la vita, bensì di accecarsi. È questo l’atto di maggior coraggio per Sofocle: accettare la condizione umana di sofferenza, non rifuggire la vita.

Come esempio storico, in età romana abbiamo Catone. Esponente del partito aristocratico, non potendo accettare la presa di potere di Giulio Cesare, del partito democratico, si toglie stoicamente la vita per non perdere la sua libertà. “Non posso fare più nulla, posso solo scegliere liberamente di morire, per affermare me stesso”.
“Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta” scriverà qualcuno circa dieci secoli dopo.

 In età moderna, vi sono alcune culture che non condannano, ma anzi implicano l’ipotesi di suicidio: la società giapponese, ad esempio, non ha mai condannato il suicidio, considerandolo un modo onorevole di morire.
Il seppuku (o anche detto harakiri, “il taglio del ventre”) è un rituale per il suicidio in uso tra i samurai – e presente ancora oggi – eseguito come espiazione di una colpa commessa o come mezzo per sfuggire ad una morte disonorevole per mano dei nemici.
Il taglio viene inferto al ventre, poiché è lì che, anticamente, si riteneva essere la dimora dell’anima e pertanto, simbolicamente, si voleva “mostrare” che la propria anima era pura e priva di colpe.
Casi di seppuku si ebbero anche al termine della seconda guerra mondiale, tra gli ufficiali che non accettarono la resa del Giappone.

Il caso forse più noto e recente è quello dello scrittore Yukio Mishima, avvenuto in diretta televisiva nel 1970.
Con la sua morte, Mishima suggellò la conclusione della sua vita artistica e della sua vicenda letteraria (poco prima infatti, aveva finito la tetralogia “Il mare della fertilità”, l’opera che l’aveva occupato per 5 anni della sua vita).
Il gesto di Mishima è stato accompagnato da un’ideale politico: dopo aver occupato con i suoi quattro uomini più fidati il dipartimento dell’esercito di autodifesa, dal balcone dell’ufficio, di fronte ad un migliaio tra uomini del reggimento di fanteria e giornalisti, tenne il suo ultimo discorso, in cui esaltava lo spirito del Giappone – identificato con l’imperatore – condannando il Trattato di San Francisco (con il quale il Giappone aveva rinunciato a possedere un esercito, affidando la propria difesa agli Stati Uniti), vedendo quest’atto come una subordinazione alla democrazia e all’occidentalizzazione del sentimento nazionale giapponese.

 “La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre”

Scriverà, nel suo biglietto d’addio.

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