Anelito

I grigiori del conchiuso soffitto che gravava sui viali della città vuota toglievano lo spazio nei miei polmoni. L’aria si faceva più calda e rarefatta, ma vapori si alzavano dal suolo molle di un asfalto sostanziato di carne nera. Lasciavo scivolare i miei passi dove le loro angustie li inviavano in veste di sicari contro la loro strada. Vidi un ritaglio di verde in una crepa del cemento. Un velo di muschio in un’interruzione del pensiero.

Lì, in mezzo ai panorami distorti dell’antichità, era assisa Lady Natura. Nient’altro che una fanciulla! Non più madre che figlia. Non più musa che sirena. Mi fissò irritata dalla mia provenienza e dall’ambiguità del mio desiderio di lei. Tra i suoi lucenti capelli di ogni colore, sul suo viso di ogni forma e nei suoi occhi di ogni taglio, una linea si sostituiva all’altra in un’eterna morte dell’eguale. La metamorfica presenza vestiva un abito diverso di attimo in attimo e mi suggeriva ogni istante una cangiante parentesi di nudità. Per ogni angolo c’era un nome nuovo da darle e uno spettacolo evenemenziale.
«No!» disse. La mutevole voce si ripeté altrove, con altre parole, offesa dalla mia muta ammirazione.
«Ti ho talmente offesa da non essere più sopportabile, amica mia? Ho troppo sbagliato per chiederti scusa?» Le domandai. «È per l’averti odiata?»
Lei chinò il capo in un’affermazione che chiedeva altro. Scelsi di parlare con me e mi dissi che non dovevo chiederle nulla di sé, nulla di ciò che aveva preso, mescolato e donato ingiustamente o amato crudelmente. Nulla di ciò che mi aveva negato e che nemmeno lei poteva recuperare dalle sabbie dei tempi che tracciano limiti pieni di furia. Lei udì il mio tacerle me stesso e disse un sì variamente detto. La dea aveva rubato le mie parole per me. In cambio, mi consegnò le sue per sé. Fu quello un atto di perdono da cui entrambi dovevamo passare per uscire dall’odioso amore umano. Il miracolo di una gioia poteva essere rinvenuto nel caldo abbraccio delle piante montane. La fanciulla, sempre unica e molteplice, come solo il femminino sa essere, poteva trasparire solo nell’autenticità dei minimi gesti, ma mai nelle irrelate azioni che emergono dai dedali intricati della nostra accatastata identità.

L’azione è troppo grande, troppo affastellata, ma il gesto è dissolto quanto vero. Il gesto fa cadere storditi nel presente come in un regalo imponderato, un dono gettato in faccia alle giornate altrui per stupirli e svegliarli a se stessi. Alla luce di questa consapevolezza, la fanciulla si fece piccola. I lunghi capelli presero il colore e la mobilità del fuoco. Gli occhi si tinsero di un cielo vicino e lontano. La pelle vibrò e assunse la trasparenza sonora della vibrazione. Morendo in quegli occhi sui quali non potevo vivere, affondai nel sogno di un sentiero che quel cielo sorveglia da sempre. Salivo la china imposta da una catena di picchi insondabili, lungo il sentiero circondato dai mirti e dai funghi bianchi che sopravvivono allo stuolo elegante degli aghi caduti dai pini. Da una radice all’altra, tra massi densi di muschio, mi avvicinavo alla fine della salita. Il sentiero passava tra due pareti rocciose che parevano una distesa statuaria di ragazzi schierati a torso nudo. Tendendo i loro muscoli guizzanti, raffrenavano la pressione delle lande impazzite da cui ero sorto: le terre innevate del mondo seriale e della sostituzione perenne che tutto aspirano a coprire. Intanto stavo raggiungendo il solo ritaglio di universo che mai sia veramente esistito. Già superavo le pareti a strapiombo e la teoria di mite fogliame che si beava dei doni solari sotto frementi fronde. Giunsi così in vista dell’aurea vallata. Come alla civetta in volo, la culla aurorale dei desideri si presentava ai sensi. Le placide onde della luce piovevano dall’oceano di zaffiro, impalpabile grandezza variegata dai candori di cirri schiumanti, e s’infrangeva scivolando nel silenzio dei picchi alteri. Una nebbia opalina si raccoglieva sulle meraviglie del tralucente granito per accarezzarne delicatamente le carni possenti. I vapori giocavano con le ombre disseminate dai pinnacoli e salivano da recessi gettati in basso che suggerivano trame metalliche lungo i fatui crinali. Filigranati tra questi estremi dirupi, vidi nuovamente tutti quei giovani che avevo appena oltrepassato. “Non dimenticare” scrivevano sull’asse del tempo. Lady Natura tornò e allungò un braccio infinito su tutti loro. «Non dimenticare» dissero tutte le sue voci. Obbedii.


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