De vita studenda

Criticata principalmente per i suoi presupposti filosofico-politici, la Buona Scuola o legge n. 107 è entrata in vigore passando dal 13 luglio 2015 attraverso un iter burrascoso per una serie di naturali e auspicabili, nonché in alcuni casi condivisibili, contestazioni. Di tutte le critiche mosse, la più interessante è quella che vuole riconoscere e contestare la struttura intrinseca della riforma, elemento fondamentale nelle leggi sulla scuola, in quanto dà informazioni sull’idea pedagogico-educativa alla base del cambiamento.

Questo, infatti, è uno dei punti più deboli del governo Renzi e della sua ministra Giannini: l’ambiguità politica che muove l’azione governativa, talvolta appoggiata a titolo ignoto da dubbie alleanze configuratesi in Parlamento, ultima pochi giorni fa con Verdini. Sicuramente è innegabile che la figura del primo ministro Matteo Renzi porti al governo un atteggiamento per così dire “amministrativo”, dannoso al funzionamento democratico di un Paese poiché tende alla possibilità di creare un Governo della Nazione. Inoltre si tratta di un atteggiamento di facciata, perché dietro ogni scelta “amministrativa” c’è un retroscena di formazione o adesione politica o, peggio, clientelare.

A questo proposito vorrei che l’attenzione si concentrasse su un particolare punto della legge 107: l’alternanza scuola-lavoro. Osservando le varie opinioni che lo riguardano, le critiche non vengono mosse all’idea socio-politica da cui nasce questo nuovo attributo del percorso educativo. Tuttavia, è in realtà fondamentale e perciò sconvolgente, cosa sottintende quest’aggiunta, apparentemente innocua. Non parlerò però delle critiche che muovono le organizzazioni politiche studentesche e che quindi risuona sicuramente nelle orecchie di tutti noi studenti, anche se la ricorderò per chi, meno interessato, non ha seguito.

Principalmente, come abbiamo sentito in una delle assemblee di novembre, la critica mossa all’alternanza scuola-lavoro si articola così: è un’azione di sfruttamento, considerando le ore di lavoro (200 per i licei e 400 per gli istituti tecnico-professionali) e la mobilitazione di un milione circa di studenti quando sarà a pieno regime, che in più insegna già dai 16 anni a considerarsi parte del sistema oppressivo padrone-operaio. A questa, i sostenitori della riforma contrappongono l’accusa di aver male interpretato il funzionamento e l’obiettivo dell’alternanza, che invece si prefigurerebbe come una serie di stage, i quali peserebbero più sulle aziende e sugli enti pubblici che sugli studenti, secondo i limiti di uno statuto lavorativo prossimamente scritto per annullare le possibilità di sfruttamento (la Carta dei diritti e dei doveri degli studenti in alternanza scuola-lavoro).

Quando la Buona Scuola è stata ideata e redatta, la riflessione sull’alternanza scuola-lavoro era già attiva da parecchi anni: un monitoraggio datato 2013 del MIUR osserva l’esistenza della necessità di adeguare la scuola pubblica italiana agli standard europei per “migliorare la formazione in uscita dei giovani e integrarla sempre più a esperienze in contesti di lavoro, perché possano diventare persone competenti al posto giusto“. Leggere una frase del genere in un documento riguardante lo sviluppo del sistema scuola mi è parso a dir poco terrorizzante e in queste poche righe vorrei spiegare il motivo.

Quest’adeguamento comporta una radicale presa di posizione rispetto a una questione filosofica (e direi di conseguenza anche politica) che appartiene alle origini del pensiero umano: la convivenza o separazione fra vita activa e vita contemplativa, fra theoria e praxis, fra otium e negotium. La riflessione del MIUR nasce dall’azzardata decisione di fornire anche il liceo di questa “competenza”.

Al contrario, infatti, gli istituti tecnico-professionali presuppongono nella loro stessa ideazione e definizione l’imprescindibilità dell’esperienza lavorativa da quella della formazione culturale. Questo al liceo non è vero. Non c’è nulla che può testimoniare questo più della definizione che Cicerone dà della scuola e dell’educazione come parte dell’otium, della vita distaccata dalle preoccupazioni civili e politiche, anche se, in un’ottica stoica, professa l’utilizzo delle conoscenze provenienti dalla speculazione filosofica per il bene comune. Su questa idea si basa la definizione medioevale di arti liberali, che, appunto, slegate dalla materialità rendevano libero l’uomo che le praticava.

Ma non è tanto l’aver legato il momento principe della vita contemplativa, se così si può dire, a una realtà pragmatica, quello che mi sconvolge. Infatti, la riflessione filosofica su questo tema si è evoluta, muovendosi in due direzioni: l’una verso un tentativo di regolarne i pesi, come aveva fatto Aristotele affidando alla theoria la supremazia sulla praxis, l’altra verso una compenetrazione fra le due.

Su questo tema è magistrale l’opera di Hannah Arendt, La vita della mente (ultima sua opera lasciata incompiuta), che specifica la vita contemplativa mantenendo però l’ottica dell’azione come fondamentale possibilità umana, sostenuta in Vita Activa (The Human Condition). Individua tre attività dello spirito: pensare, volere e giudicare che sono le facoltà sulle quali l’uomo basa la facoltà politica, traslitterabile in termini più familiari in “cittadinanza” o “capacità di assumere un ruolo di cittadino all’interno della società”. Queste tre attività, pertanto, si differenziano completamente dal conoscere che mira a un oggetto e a un obiettivo: diventare persone competenti al posto giusto. Così quindi stride la decisione di imporre la conoscenza della praxis (l’alternanza è obbligatoria e necessaria all’esame di maturità) in vista di un fine pragmatico e specializzante, proprio dell’impostazione formativa dei sistemi educativi anglosassoni.

Così mi pare evidente che questo punto della riforma miri a formare dei produttori zelanti più che dei cittadini. Non mi dispiace essere così reazionario rispetto a questa scelta del legislatore e credo che uno dei pilastri dell’insegnamento scolastico sia proprio il denken (pensare), anche critico, di cui parla Hannah Arendt. Infine questo provvedimento non può non farmi pensare a una delle scene di Ratataplan di Maurizio Nichetti, in cui l’ingegner Colombo non viene assunto perché alla domanda di disegnare un albero tira fuori i colori e non disegna come tutti gli altri uno storto e monocromatico albero, ma una grande quercia colorata.


Fonti

Gazzetta Ufficiale

Hannah Arendt, La vita della mente, Il Mulino, 2006.

Crediti

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