Il caso Spotlight: solo per la Verità

Il caso Spotlight è il film di Tom McCarthy che riporta le vicende realmente accadute su diversi casi di pedofilia in America; in particolare, l’indagine era stata originariamente fatta dal quotidiano “The Boston Globe”, che aveva scoperto che l’arcivescovo Bernard Francis Law aveva coperto quei casi in diverse parrocchie. Ed è sempre la redazione di “The Boston Globe” la protagonista del film: la guida del gruppo Marty Baron (Liev Schreiber) e il suo collaboratore Ben Bradlee Jr (John Slattery) danno il via a un’indagine su più di 70 sacerdoti dell’Arcidiocesi di Boston che avrebbero commesso abusi sessuali su minori; insieme a loro il resto della squadra giornalistica, formata da Sacha Pfeiffer (Rachel McAdams), Michael Rezendes (Mark Ruffalo), Walter Robinson (Michael Keaton) e Matt Carroll (Brian d’Arcy James).

Se vi aspettate scene colme di suspense, monologhi carichi di pathos, testimonianze strappalacrime e colpi di scena, questo non è un film per voi. Ma non pensate che per questo motivo sia noioso e pesante: è più corretto dire che si colloca specificatamente nel genere del film d’inchiesta. Non sono le vicende umane il fulcro dell’attenzione, ma la metodica ricerca delle informazioni e l’analisi dei dati: tutto si concentra su come il team opera alla ricerca della verità e di come si preoccupa di promulgarla. Sicuramente, per chi non ama questo genere il film risulterebbe un po’ piatto, incapace di suscitare emozioni nello spettatore; ma è apprezzabile che McCarthy abbia voluto rischiare di precludersi una più vasta parte di pubblico pur di realizzare qualcosa di meno ordinario e perfettamente coerente con il proprio genere. Appaiono un paio di vittime che forniscono la loro testimonianza, ma niente occhi rossi e nasi gocciolanti: racconti brevi, diretti, utili. Nessuno ha tempo di piangere o compiangersi: bisogna lavorare sodo per adempiere all’unico obiettivo comune, e cioè la verità. E solo la verità può fare giustizia.

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Viene mostrato per pochi secondi persino un carnefice: invece che il mostro che ci si potrebbe aspettare, vediamo un vecchio che ammette candidamente le sue azioni, aggiungendo che però non traeva piacere da quegli abusi e lasciando quindi sottintendere che perciò non li considerava crimini. Spiazzata Sacha Pfeiffer che sta lì ad ascoltarlo e spiazzati siamo anche noi: una scena assolutamente originale. Questo fa McCarthy per tutto il film: colpirci con la semplice resa dei fatti, nudi e crudi; lo sconvolgimento nasce in noi dall’assistere a nessun tipo di sconvolgimento. Non c’è bisogno di particolari sottofondi musicali o dialoghi memorabili: tutto ci coinvolge solo perché è.

Un tentativo, insomma, di trasmettere un messaggio non indifferente né banale: il male dovrebbe inorridirci in quanto è il male. Non dobbiamo badare troppo a come ci viene presentato, a quanto le vittime possano commuoverci mentre singhiozzano davanti a noi o alle dichiarazioni che sanno vagamente di epicità di avvocati e altri magistrati coinvolti. I fatti sono i fatti. I fatti orrendi sono fatti orrendi. E i fatti possiamo analizzarli, ordinarli, presentarli al mondo: questo è il modo migliore di fare giustizia. Un po’ come un chirurgo che, quando opera, non pensa a quanto faccia impressione il sangue o a chi piangerà il paziente se non dovesse superare l’operazione o a quanto sia ingiusto che una persona così buona si sia ammalata. Il medico pensa ad eseguire correttamente ogni incisione, a toccare i nervi giusti; insomma, a far andare a buon fine l’operazione. A compiere il suo dovere, perché solo facendo il suo dovere può essere nel giusto.

Il consiglio è di vedere il film e giudicare da voi: dopotutto, vederlo è come agire come i protagonisti della vicenda: sarete costretti a calarvi nei panni di attenti osservatori. Quindi guardate, analizzate e trovate la vostra verità.


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