Si potrà mai mangiare senza sentirsi in colpa?

Che oggi si viva in una società anoressizzante è legittimo pensarlo. Telecomando alla mano i programmi pullulano di spot su cibi sempre più magri, sempre più asciutti, sempre meno sostanziosi, nonché donne sempre più ritoc… magre, perché la prova costume dura tutto l’anno. Un discorso di questo tipo è banale se limitato a questa considerazione. La relazione sociale che esiste tra il non mangiare (an- orexia, lett. senza nutrimento, cibo) e una crisi endemica che sta corrodendo i pontili di una società stravolta dall’esigenza di scomparire, sta davvero cambiando non solo la nostra relazione col cibo, ma anche con la nostra idea di umanità. Già, perché la relazione col cibo, e quindi l’alimentazione, sono dagli albori dei tempi associati a momenti di elevazione dello spirito. Uno su tutti Femio, l’aedo che intratteneva col suo verso i Proci (mal volentieri a detta di Omero) ne l’Odissea: questa è la prima testimonianza di un’usanza sociale che legava a doppio filo alimentazione e poesia. Quest’ultima, infatti, è spesso associata a cene e simposi nell’antichità: tutti i lirici cantavano in occasioni alquanto goderecce, mischiando buon cibo, buon vino e dell’ottimo (si spera) sesso omo- ed eterosessuale. Un mondo che sembra molto distante dalla nostra contemporaneità.

Il rapporto col cibo, infatti, non era così complicato, e la poesia aveva un ruolo ordinatore ben preciso: il connubio tra cibo e versi sembra consociare l’idea di primitivo, il nutrimento, con l’elevazione del verbo, la poesia, e da quest’unione nasce l’esigenza di essere umani e di esserlo insieme. Cibo e poesia quindi avvolgevano l’uomo in una strana tessitura radicale e celeste insieme. In questo la poesia ha oggettivamente perso molto, perché il cibo, ora massificato e privato di ogni gusto, è uno sconosciuto, così come la poesia non è più associata a momenti di unione, ma è diventata un’operazione singolare, rivolta ad una élite (di poeti). Con questo non si vuole dire che prima la poesia era per tutti: era solo percepita come un elemento di socializzazione, così come il cibo.
Oggi, invece, il cibo, insieme alla poesia, è un fattore anti-sociale, perché molti sono incapaci di fruire di questi piaceri.

Consideriamo poi un fatto: μέσον τε καὶ ἄριστον (il giusto sta nel mezzo) scriveva Aristotele. A questo aggiungerei che i piaceri non vanno banditi, come propugnano certe filosofie e religioni, ma goduti secondo il proprio benessere. La poesia, associata al mangiare, riusciva a dare un limite implicito, che stava nell’idea di sociale e di unità sottesa dal fatto che veniva recitata mentre si cenava. La prima unità d’intenti nell’uomo viene a fondarsi quando si è in grado di riconoscersi in un passato comune e da questa maglia strana si può dedurre il limite, perché si intende subito quando si mangia troppo, o quando si mangia troppo poco. Tutto sta nella solidarietà sociale, che manca da quando la società di massa ha imposto una visione del cibo diversa. Anche perché a troppo mangiare e bere (parimenti al desistere, desistere, desistere) si finisce coll’essere poco sociali…

Oggi, infatti, il cibo è un abuso per forza di cose. Non ha una funzione sociale, ma anti-sociale. Credo che in questo ci sia bisogno di una revisione delle priorità: proviamo a pensare che la poesia, come il cibo, siano qualcosa di cui godere e non un’imposizione scolastica da una parte, dall’altra uno sfogo quando si è depressi o un’espressione di depressione, da qui potremmo cominciare un discorso sulla questione dell’alimentazione oggi.

Un grandissimo poeta francese, Mallarmé, denota come poesia proemiale della sua prima raccolta un brindisi:

BRINDISI

Niente, questa schiuma, vergine verso
Non designa che la coppa;
Simile lontano s’annega una truppa
Di sirene riverse.

Noi navighiamo, o miei diversi
Amici, io già sulla poppa
Voi fastosi sulla prua che taglia
Il flutto di fulmini e d’inverni;

Un’ebrezza bella m’apprende
Senza temere nemmeno il suo
Beccheggio, avanzo questo brindisi

Solitudine, scoglio, stella
Non importa a che valse
Il bianco esitare della nostra tela.

(Trad. da Poésies, Mallarmé, GF Flammarion)

L’esigenza conviviale permette di dimenticare ogni preoccupazione. Si dice che Mallarmé abbia effettivamente recitato questo sonetto ad una cena: una produzione di grande bellezza e significanza, perché denota come l’unità d’intenti di chi sa vivere bene il bere e il cibo insieme, taglia il flutto di fulmini e d’inverni, rivelandosi umani, sempre più umani e quindi solidali.

Insomma, poesia e alimentazione non sono per niente slegate, basta dare una possibilità nuova al verso, quella di diventare quotidiano, come il cibo. E questo non significa scrivere poesia male e sempre: significa modificare il ruolo della poesia per spiegare anche che il cibo può essere associata ad un’elevazione che né l’eccesso, né la rinuncia, riescono a supplire. Accorgersene è facile: basta guardare alle nostre origini sociali. Tutte fondate su cibo, vino, sesso e poesia. E certe volte bisogna dirlo: ce la godevamo di più.

Credits: immagine di copertina

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