Eos (l’Aurora)

di Ivan Ferrari

Ηώς
Oh, dèa la cui speranza ci accarezza!
Tu aneli l’aria ferma di fredde notti
che smuovi, volgendola in mite brezza.
Le male ore al tuo tepore dirotti.
Tu, troppo dolce all’essere cantata,
quale che sia lo stile che si adotti.
Le stelle sbiadiscono in ritirata,
al caldo chiarore che ci trasporti
con lievi dita di seta rosata.
Cala tensione sui campi e sull’orti,
uccelli tremanti guardano i monti
che alli raggi tuoi fian contrafforti.
Le presaghe ancelle ti sono arconti
nel loro svanire al primo tepore
che trascolora quei lietissimi fronti.
Fili di rame adducono splendore
e l’incendio tuo tocca l’orizzonte,
dove muti vuoti empie il colore
col rosso screziato della tua fronte!
Fuggono lontano le brume inerti
che infestano le rotte di Caronte,
teredini acquattate tra tetri erti.
Sempre Nottetempo fa le pianure,
simulacro di arabici deserti.
Con quelle ombre s’involano le paure
per far posto al profumo dell’erba
che fate adornano con stille pure,
come fosse una distesa superba
di cristalli più lucenti del Sole,
di rugiada che canta sanza verba.
Anche noi si ristà senza parole
per l’amore che verde veste i prati
e per l’aprirsi lento delle viole.
Tutti li fiori d’oro e quelli ambrati
effondono nell’aria lo sapore
coi bei petali al vento disserrati.
Volgesi sui colli lo tuo chiarore,
rifrangendo sulle piccole gocce
che d’arcobaleno fanno lo cuore.
L’orizzonte di là delle alte rocce,
come il piumaggio dei cherubini,
chiama li uccelli alle loro bisbocce
facendoli chiassar da l’alti pini.
Da l’una a l’altra frasca vanno lieti
sì come le speranze dei bambini.
Da inerpicati mirti a grandi abeti
intonano al ruscello il chiaro canto
che sona nei lor verdi minareti.
Sull’acque scintillanti piove intanto
lo primo forte, sano e vero raggio.
Sorge l’astro che da il riso e il pianto!
Nel cielo s’avanza un nuovo miraggio
ch’infra nebbie diradate sfavilla
e delle bianche nubi fia tendaggio
un velo d’arancione, rosa e lilla
steso sul mondo fa seconda pelle
e sembra, questa valle, ricca villa.
Le ninfe dei boschi ti sono ancelle,
tu che anche nel verno fai primavera,
e più non scorgo Luna o l’alte stelle.
Vivace morte della notte nera,
riservata e buffamente incostante,
come le certezze nella nostra era.
Pensare che prima erano sì tante!
L’ultimo vetro di fragile allegria
è nella parvenza del giorno infante.
I moti leggeri della nostalgia
sospingono delicate lacrime
lungo le quiete curve della tua via.
I gentili occhi delle vane rime
agli occhi tuoi guarderanno sempre,
ma senza l’astio di chi si deprime.
Ampi e fermi laghi scuri e profondi
sono quegli occhi nel rosso celeste,
sopra il mare niveo di mille mondi.
Mistero ardente nell’epoche meste!
Per fulgida onestà, spesso lei s’adira,
spesso torna poi calma e pace veste.
Al suo comparire vibra la lira!
Più di quel che s’è detto direi di lei,
ma una candela rischiara una pira?

Crediti immagine copertina: wikipedia

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