La vendetta del deserto

I granelli di sabbia mi camminano sulla pelle e io non riesco a fermarli. Tutto il deserto bollente mi si riversa addosso con rabbia, come se gli avessi fatto del male, una volta, tanto tempo fa, e non mi ricordo il motivo. Una colpa ancestrale da cui non riesco e non posso liberarmi. La vendetta del deserto che si scaglia senza remore su di me.

«Non sei stanco?»
Mi rivolgo al mio amico che cammina silenzioso accanto a me, ma un po’ più avanti.
«No, tu?»
«Un po’ sì, non riusciamo a fermarci un attimo?»
«Non credo che sia il caso di fermarci qui!»
Sono esausto! È possibile che non se ne renda conto? Che non abbia un po’ di rispetto per me? Sono ore che camminiamo! Vado avanti nel rumore inquieto della vastità desertica, percependo tutto il peso dello zaino che mi porto sulle spalle. Resto sempre più indietro, sempre più indietro. Il mio amico ormai è avanti a me di quattro, cinque, sei passi. Fantastico di fermarmi qui, così, improvvisamente, come se non avessi una meta a cui arrivare, come se non dovessi tornare a casa un giorno, come se il mondo non fosse altro che un deserto infinito e perpetuo in cui non vale nemmeno la pena di perdersi, come se non avessi un amico di fronte a me, come se non fossi assolutamente nessuno e dovessi pagare una colpa archetipica. Mi lascio sbranare dalla sabbia ardente…
«Ci siamo quasi.»
Un suono lontano, la voce del mio compagno di viaggio, che come briciole di roccia mi sferza la gelatina degli occhi, fessure contro il sole. Ci siamo quasi dove? Sono soltanto un viandante immobile, bloccato nei miei pensieri.

Stefania non voleva che partissimo. «Che idea assurda! Un viaggio nel deserto… come andare incontro alla morte!». Riccardo si era messo a ridere: «Cazzo Stefania, ma che cosa pensi? È tutto organizzato, ci sono delle tappe, non devi preoccuparti, e soprattutto non devi stressarmi!».
Io ero rimasto in silenzio, ma da quella volta, da quando Stefania aveva espresso i suoi dubbi, tutto era parso assurdo anche a me. Un viaggio nel deserto! Tra le tende beduine… Che cosa mi aveva attirato tanto da dire di sì? Riccardo era entusiasta, e io ero entusiasta che avesse chiesto a me di accompagnarlo, non importava del resto, o di dove mi stesse portando, l’importante era partire con lui. Fuori dal ristorante mentre Riccardo pagava il conto, Stefania, con una sigaretta nervosa tra le dita della sua mano sinistra mi aveva detto, con stizza malcelata: «Diego, sei proprio sicuro di quello che stai per fare? Insomma te e Riccardo dispersi in un cazzo di deserto dimenticato da Dio, a vagare senza meta, per cosa poi? Ritrovare voi stessi? Fare finta di essere amici?».
Non era mai stata così diretta con me. Non lo era mai stata con nessuno, e io non credevo che davvero pensasse questo del rapporto tra me e il suo fidanzato; finalmente qualcuno aveva avuto il coraggio di dire ad alta voce che sembrava essere una montatura. Un tenere insieme i piani sghembi di una torre altissima che sta per crollare, nonostante le solide fondamenta. «Magari passare del tempo insieme è quello che ci serve!», avevo risposto, senza però aggiungere “forse il fatto che tu non ci sia, che per una volta potrò fare finta che tu non esista, mi aiuterà, ci aiuterà a ricucire il nostro rapporto!”. Immaginai la sua risposta: “Stronzate Diego! Tutte stronzate! Smettila di dare la colpa a me, della vostra amicizia in frantumi!”.

A pezzi, mi ero sentito quella sera, a pezzi avevo vissuto le settimane precedenti alla partenza, a pezzi ero partito, a pezzi mi trovo ora tra le dune bianche e incredibilmente luminose del deserto. A pezzi vedo il sole, come dopo un’esplosione inattesa, tante piccole lucciole fosforescenti che dal cielo vengono a cadere sotto le palpebre, tra le ciglia, nei miei occhi. Non combatto con i miei sensi, che desiderano a tutti i costi perdersi.

Un sapore di datteri tra labbra, naso e mente mi sveglia. Il deserto ha smesso di camminarmi addosso, e ora i colori rossastri di una tenda decorata mi rivestono di una sensazione di morbidezza. Sono i cuscini sotto di me, credo, che mi fanno stare così bene. Mi rendo conto dei miei primi pensieri solo quando richiudo gli occhi stancati: Stefania e i suoi capelli, Stefania e le sue dita nervose, Stefania e i suoi sussurri quella notte, nel mio orecchio. «Non sono mai stata così bene…» «Nemmeno con Riccardo?» «Nemmeno con lui…».
«Stai bene, vuoi del tè?»
La voce che si rivolge a me non ha la stessa armonia di quel ricordo, sembra più un ordine che una domanda.
«Perché mi hai portato qui?» le mie parole escono come polvere del deserto, come se ne avessi inalate troppe, senza espirarle via, fuori di me.
«Perché volevo passare del tempo con te, lontano dalla nostra vita di tutti i giorni, lontano…»
«Da Stefania» concludo.
Una litania in sottofondo, fastidiosa e insistente, più ancora del ronzio di silenzio della sabbia, mi conferma la mia teoria, coprendo la mancata contro risposta di Riccardo.
«Tu non tornerai a casa con me» le parole inattese, come l’esplosione di sole.
«Credevo mi avessi perdonato» la polvere continua a soffiare fuori.
«Non l’ho mai fatto.»

Lo strano tè scorre tiepido dalla gola, alle vene, fino al cuore. Mi lascio ingoiare dalla bevanda mortale, la vendetta del deserto.

Un racconto di Federica Tosadori

 

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