La poesia di Franco Fortini

Sul numero 1078 di «Internazionale» il direttore Giovanni De Mauro riporta in editoriale la poesia “Traducendo Brecht” di Franco Fortini. La poesia ipnotizza per la semplicità sconvolgente con cui i versi evocano il potenziale poetico delle parole.

Risalendo alle raccolte omonime “Traducendo Brecht I” e “Traducendo Brecht II” (datate tra il 1959 e il 1961), la sezione di Letteratura propone un’indagine di approfondimento sulla poesia fortiniana.

La poesia come esigenza espressiva

Nel 1910 György Lukàcs scrive “L’anima e le forme“. Nel costruire la sua estetica, il filosofo ungherese arriva quasi a porre l’arte come appendice secondaria della critica, come se la critica letteraria non sia dedita all’analisi di opere d’arte, ma l’arte stessa esistesse in funzione della critica e dell’estetica. Lukàcs fu un eccellente teorico dell’arte e delle forme estetiche, ma non possiamo negare i suoi limiti di comprensione del fenomeno artistico. Pare emblematico invece notare come la poesia di Fortini riesca ad aggiustare proprio il cattivo esito a cui giunge Lukàcs. Fortini non farcisce la sua poesia di aspettative e pretese, scrive perché lo sente come un’esigenza e non è reticente nell’ammetterlo.

Un grande temporale                                                                        

per tutto il pomeriggio si è attorcigliato

sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.

Fissavo versi di cemento e di vetro

dov’erano grida e piaghe murate e membra                                    

anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando

ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,

ascoltavo morire

la parola d’un poeta o mutarsi

in altra, non per noi più, voce. Gli oppressi

sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli

parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso

credo di non sapere più di chi è la colpa.

Scrivi mi dico, odia

chi con dolcezza guida al niente                                                      

gli uomini e le donne che con te si accompagnano

e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici

scrivi anche il tuo nome. Il temporale

è sparito con enfasi. La natura

per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia                           

non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.

La seconda parte della poesia racchiude tutta la forza creativa che Fortini riesce a incarnare nel suo far poesia. L’odio, sentimento che dai versi si percepisce naturale, umano, sano, viene addirittura preceduto, sintatticamente e semanticamente, dall’azione di scrivere (Scrivi mi dico, odia, v. 14). La calma che si percepisce è la quiete dopo la tempesta. Una stasi sospesa sul nulla o su un interrogativo caotico che pare un buco nero: allora si incontrano “gli uomini e le donne che con te si accompagnano / e credono di non sapere” (vv. 16-17) e l’esercito dei nemici tra cui deve essere scritto “anche il tuo nome” (v. 18).

Infine, la natura viene declassata dal ruolo predominante che assume in Leopardi o nelle opere espressioniste di inizio Novecento, perché “per imitare le battaglie è troppo debole” (v. 20). Non si tratta di un ribaltamento ideologico o morale delle poetiche precedenti, bensì di una presa di coscienza di come la natura non possa più dominare sull’uomo.

Così succede nell’operetta morale Dialogo della Natura e di un islandese, nelle poesie di Rebora o nella prosa di Slataper, che già configuravano uno scontro meno impari tra natura e città: dopo i due conflitti mondiali ci si rende conto di come la natura non possa più arrivare a riprodurre delle battaglie tanto catastrofiche. L’estremo finale approda a un leitmotiv che non cambia poiché nulla può mutare: che si tratti di una camminata sul vuoto lo si capisce proprio dalla ripetizione ravvicinata di quel “nulla” in mezzo al quale l’uomo cerca una zattera, una fune, un salvagente che arriva inspiegato, ma salvifico, con l’oppositiva che chiude il testo (La poesia / non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi; vv. 20-21).

D’altronde già Leopardi aveva preannunciato il naufragio dell’uomo in mezzo al mare. Di più, all’inizio del ‘900 un simile pensiero prese forma nel Giardino dei ciliegi di Anton Čechov, nelle opere pirandelliane, nell’inettitudine di Zeno Cosini o nell’indifferenza dei personaggi di Moravia.

La sospensione brechtiana nella poesia di Fortini…

Questo esito assume maggior rilievo se rapportato al processo di smarrimento che viene dispiegato nella prima parte della lirica in cui il temporale è sì messo in scena, ma viene osservato dietro un vetro di protezione che mantiene le distanze, così da mantenere una quiete di fondo. Una distanza da cui le cose possano essere più comprensibili. L’io lirico non si scompone all’arrivo del grande temporale (v. 1) che infatti diviene, subito dopo, semplicemente acqua” (v. 3). Lo scioglimento di tutta la realtà esterna in “grida e piaghe murate e membra” (v. 5), di cui il poeta stesso fa parte, è tenuto a debita distanza dall’azione di sopravvivere, che è quasi un’attesa di qualcosa che non si sa, su cui ci si continua a interrogare, ma che non arriva a risoluzione (“credo di non sapere più di chi è la colpa“, v. 13).

Il caos è tutto interno, un dissidio dell’io che si divide tra “i tegoli battagliati” (v. 7) e i versi di poeti precedenti – che rimandano forse al lavoro di critico di Fortini – che da parola (v. 9) si tramutano in labile “voce” (v. 10). Una voce non più portatrice di un insegnamento di vita, ma parte di un tutto confusionario che va sciogliendosi col cadere della pioggia. In questo gioco di vuoti a perdere che si dissolvono, neanche le domande esistenziali hanno più senso d’essere, infatti vengono poste non in forma interrogativa, ma in un’enumerazione che non approda a niente: tutti sono tranquilli, “l’odio è cortese” (v. 12), tutto pare indifferente a tutto.

… e le ragioni del titolo

Traducendo Brecht è un titolo emblematico. Critico, poeta, traduttore, Fortini si avvicina a Brecht. Lo studia, lo traduce ed è naturale che ne sia influenzato. Sembra che la tecnica dello straniamento si ripercuota sulle sue poesie, sorreggendone l’andamento, il ritmo, il tono riflessivo. Il vetro dietro cui l’io guarda il sopraggiungere del temporale è una presa di distanza, molto simile alla tecnica recitativa che Brecht chiedeva agli attori. Fortini non chiede di immergersi emotivamente nei versi, parla della sua realtà ma ne mantiene le distanze perché la poesia è comunque rappresentazione, quindi non reale. Così come l’attore non deve nascondere la sua recitazione, ma deve palesarsi allo spettatore per quello che è, anche il verso poetico non si camuffa da elemento reale, ma si strania dal significato per ricondursi alla sua essenza pura, quella di parola.

È Fortini stesso che afferma:

I miei versi esistono appena per rammentare come viviamo: fra la trionfale organizzazione delle carogne contro qualsiasi bene possibile e pubblico. […] Sono ormai così persuaso della natura cerimoniale dello scrivere, così rispettoso di ogni possibile istituzione retorica, così ben difeso dalla confusione delle categorie, che senza iattanza e a voce bassa posso dire che la poesia è sufficiente a se stessa ma non a me e che più di tutto mi importa la semplice verità

L’espressionismo nella poesia di Fortini

La poesia non è vita, essa “rammenta come viviamo“. D’altronde la poesia è per definizione autoreferenziale, basta a sé stessa e per l’uomo è strumento, non fine. Fortini quindi utilizza lo strumento poesia per ricercare una verità che sia superiore, e di questo ci si accorge perché in Traducendo Brecht la scrittura è posta come condicio imprescindibile della vita, come azione necessaria, anche se apparentemente non se ne scorge il senso. In questa ricerca assidua di verità si può scorgere la lezione dell’Espressionismo primo-novecentesco, tanto che non mancano nella poesia di Fortini espedienti stilistici recuperati probabilmente da questo retaggio.

Nella raccolta si incontra ad esempio la disposizione di due aggettivi che circondano il sostantivo, un costrutto caro al Rebora dei Frammenti lirici. in Primo riassunto, ad esempio, si legge: “Torno dal freddo, raro freddo vivace“.

Infine, in “Traducendo Brecht” si nota anche l’estrema attenzione per il consonantismo, quando, nel descrivere l’avvento del temporale, le allitterazioni dell’occlusiva dentale gemiata e della vibrante rendono espressionisticamente l’alternanza tra gli scrosci di pioggia e i tuoni:

Un grande temporale / pertutto il pomeriggio si è attorcigliato / sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.

In certo modo Fortini continua l’evoluzione del pensiero futurista del progresso che sovrasta la natura, ma lo rilegge in chiave espressionista, avvertendo la poesia come l’elemento irrinunciabile anche se non sufficiente. Sempre espressionista è anche il carattere autobiografico della sua poesia. Non si tratta però di un “autobiografismo” fine a sé stesso, bensì “il mio modo, non intenzionale e anzi avversato, di affermare ‘al contrario’ il bisogno di obiettività, la Cosa, come dicono i filosofi“. In quest’assidua ricerca di verità il pensiero filosofico è profondo e fondamentale.

E se in Rebora capita di leggere “Quando morir mi parve unico scampo, / varco d’aria al respiro a me fu il canto: / a verità condusse poesia. / Però non ogni canto è buon respiro, / né tutti i versi fanno poesia” (Curriculu Vitae, 1956) in Fortini vale la medesima cosa, solo che la coscienza tragica tipica della generazione primo-novecentesca viene meno e lascia il posto a un sentimento più sereno, seppur velato da un dissidio che non è più premonizione di guerra, ma sentore di un vuoto su cui si regge tutto il consorzio umano e contro cui nulla è possibile se non un salvagente, una zattera a cui appigliarci.

È probabile che con molta pena noi si stia soltanto preparando la felicità che un poeta mostrerà facilmente; oppure le condizioni perché nei nostri versi altri legga una felicità che non abbiamo saputo di averci chiuso dentro“.

FONTI

Traducendo Brecht di F. Fortini, da Traducendo Brecht I, in Una volta per sempre: poesie 1938-1973, Torino, Einaudi, 1978, p. 218.

G. Lukàcs, L’anima e le forme, SE editore (2002)

C. Rebora, Poesie

CREDITS

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