Paul Celan e la voce del linguaggio

Grata di Parole” di Paul Celan è un’opera, divisa in sei parti, che raccoglie con una costante, la pietra, l’idea della voce. In questa breve plaquette Celan rivede il senso della parola e ne scarnifica i riflessi, cercando di andare sempre più a fondo, in funzione di una voce.

Voci, traccia
su acqua verde scalfita.
Quando si tuffa il martin-pescatore,
sussurra l’istante:

Ciò che su una riva e l’altra
a te si strinse,
passa
falciato in altra immagine.

(P. Celan, Poesie, Mondadori, I Meridiani, 1998)

In questi brevi versi – non troverete qui poesie lunghe – osservare la loro forza e intensità riesce facile. Già da quel passa isolato, parola assoluta. Celan usa spesso questo elemento, con fini sia musicali, sia semantici: sottolinea, dà pause, si reinventa una musicalità, rafforzando il contesto del suo significato.

Paul Celan: il poeta e la soglia

Probabilmente non esiste altro poeta così grande e abile nel mischiare quest’armonia a un significato estremo, forte, tendente all’assoluto. Nel breve stralcio riportato, estratto dalla prima parte, in cui raccoglie le voci, si vede come il parlare sia prima di tutto traccia, ossia solco-soglia. Forte, appunto, in lui è il tema della soglia, sull’onda della teorizzazione heideggeriana della poesia come confine. Il poeta, in sintesi, è un individuo che sta alla porta, che osserva “Ciò che su una riva e l’altra / a te si strinse, / passa / falciato in altra immagine“. Rimette in discussione dal profondo il senso ultimo della parola, tramite l’osservazione da una grata – e quindi un limite, una soglia – e da lì riesce a ritrarre il segno della poesia.

Trasferito nella
landa
dalla traccia inconfondibile:

Erba, divisa da scritte. Le pietre, bianche,
con le ombre degli steli:
Non leggere più – guarda!
Non guardare più – va’!

Va’, la tua ora
non conosce sorelle, tu sei –
sei a casa. Una ruota, lenta,
sfila da sé, i suoi raggi
rampicano,
rampicano su nerastro campo, la notte
non richieste stelle, non vi è posto
ove si chieda di te.

Nell’ultima parte, Stretta, raccoglie il trasferimento, quindi l’addentrarsi, e che suggerisce? Non leggere più, non guardare più. Incitando in un qualche modo alla vita: all’andare, al guardare. Lasciarsi andare quindi al tempo, simboleggiato dalla ruota lenta, un tempo e un universo che non chiedono nulla. Così noi non dobbiamo chiedere nulla.

Già, non dobbiamo chiedere nulla: questi versi insegnano a collocarsi, danno un luogo e una forza di vita che pochi poeti sono riusciti a ritrarre. E sì, dovremmo dargli retta, smetterla di leggere e cominciare a guardare. Non bisogna però fraintendere, non dobbiamo smettere di leggere tout court: bisogna raccogliere tanta vita prima di leggere e questo libro ce lo insegna. E noi, purtroppo, siamo talmente pieni dei nostri occhi che non sappiamo più usarli per quel che servono: osservare.

FONTI

P. Celan, Poesie, Mondadori – I Meridiani (1998)

CREDITS

Copertina

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