Alda Merini racconta

di Anita Mestriner

 

La mia idea iniziale era quella di iniziare l’articolo con due poesie emblematiche del rapporto tra la poetessa Alda Merini e il fumo.
Poi mi sono imbattuta in un’intervista che la Merini ha rilasciato nel 2004 alla giornalista Cristiana Ceci.
Così ho deciso di pubblicarlo, sempre insieme alle poesie, perché solo così rendo merito ad una delle migliori voci poetiche del 900 italiano.

 

Spesso ripeto sottovoce

che si deve vivere di ricordi solo

quando mi sono rimasti pochi giorni.

Quello che è passato

è come se non ci fosse mai stato.

Il passato è un laccio che

stringe la gola alla mia mente

e toglie energie per affrontare il mio presente.

Il passato è solo fumo

di chi non ha vissuto.

Quello che ho già visto

non conta più niente.

Il passato ed il futuro

non sono realtà ma solo effimere illusioni.

Devo liberarmi del tempo

e vivere il presente giacché non esiste altro tempo

che questo meraviglioso istante.

 

 

Sono nata a Milano il 21 marzo 1931, a casa mia, in via Mangone, a Porta Genova: era una zona nuova ai tempi, di mezze persone, alcune un po’ eleganti altre no. Poi la mia casa è stata distrutta dalle bombe. Noi eravamo sotto, nel rifugio, durante un coprifuoco; siamo tornati su e non c’era più niente, solo macerie. Ho aiutato mia madre a partorire mio fratello: avevo 12 anni.

Un bel tradimento da parte dell’Inghilterra, perché noi eravamo tutti a tavola, chi faceva i compiti, chi mangiava, arrivano questi bombardieri, con il fiato pesante, e tutt’a un tratto, boom, la gente è impazzita. Abbiamo perso tutto. Siamo scappati sul primo carro bestiame che abbiamo trovato. Tutti ammassati. Siamo approdati a Vercelli. Ci siamo buttati nelle risaie perché le bombe non scoppiano nell’acqua, ce ne siamo stati a mollo finché non sono finiti i bombardamenti.

Siamo rimasti lì soli, io, la mia mamma e il piccolino appena nato. Mio padre e mia sorella erano rimasti in giro a Milano a cercare gli altri: eravamo tutti impazziti. Ho fatto l’ostetrica per forza portando alla luce mio fratello, ce l’ho fatta: oggi ha sessant’anni e sta benissimo. La mamma invece ha avuto un’emorragia, hanno dovuto infagottarla insieme al piccolo e portarseli dietro così, con lei che urlava come una matta.

 

A Vercelli ci ha ospitato una zia che aveva un altro zio contadino, ci ha accampati come meglio poteva in un cascinale. Sembrava la Madonna mia madre, faceva un freddo boia, era una specie di stalla, ci siamo rimasti tre anni. Non andavo a scuola, come facevo ad andarci? Andavo invece a mondare il riso, a cercare le uova per quel bambino piccolino: badavamo a lui, era tutto fermo, c’era la guerra. Stavo in casa e aiutavo la mamma, andavo all’oratorio, ero una brava ragazza io.

Io sono molto cattolica, la mia parrocchia a Milano era San Vincenzo in Prato. Mi sento cattolica e profondamente moralista, nel senso che sono una persona seria allevata da genitori serissimi, pesanti e pedanti in fatto di morale. Non lo so se credo in Dio, credo in qualcosa che… credo in un Dio crudele che mi ha creato, non è essere cattolici questo? Perché, Dio non è così? Tutti abbiamo un Dio, un idoletto, ma proprio il Dio specifico che ha creato montagne, fiumi e foreste lo si immagina solo… Con la barba, vecchio, un po’ cattivo, un Dio crudele che ha creato persone deformi, senza fortuna.

Credo nella crudeltà di Dio. Non penso siano idee blasfeme, la Chiesa non mi ha mai condannata. Anzi, il mio ‘Magnificat’ è stato esaltato, perché ho presentato una Madonna semplice, come è davvero lei davanti a questo stupore dell’Annunciazione, che non accetta fino in fondo perché lei ha San Giuseppe.

Io pregavo da bambina, ero sempre in chiesa, sentivo sette, otto, dieci messe al giorno, mi piaceva, però non ci vado più dai tempi del manicomio. Ho trovato una tale falsità nella Chiesa allora, in manicomio vedevo le ragazze che venivano stuprate e dicevano di loro che erano matte. Stuprate anche dai preti, allora mi sono incazzata davvero. L’ho visto accadere ad altri, non è una mia esperienza. La Chiesa è dura con le donne, da sempre. Però oggi come sono magre e secchette le donne, prima erano belle adipose.

Sono tornata a Milano quando è finita la guerra, siamo tornati a piedi da Vercelli, solo con un fagotto, poveri in canna, e ci siamo accampati in un locale praticamente rubato, o trovato vuoto, di uno straccivendolo. E ci stavamo in cinque. Abbiamo ripescato anche mia sorella che era partita con i fascisti, con i tedeschi, aveva imparato, si metteva in strada, tirava su le gonne, i tedeschi andavano in visibilio e le regalavano il pane, si sfamava così, si alzava solo la gonna, era bellissima.

In questo stanzone stavamo tutti e cinque, accampati, con delle reti, allora sono andata con il primo che mi è capitato perché non ce la facevo più. Avevo 18 anni, dove dormivo scusate? Così poi l’ho sposato, nel 1953. Era un operaio, è morto nel 1981, un lavoratore. Si chiamava Ettore Carniti, io sono zia del sindacalista Pierre Carniti e anche mio marito era sindacalista. Un bell’uomo.

Ho avuto quattro figlie da lui. Andavamo a mangiare la minestra da mia madre perché lui non aveva ancora un lavoro. Poi abbiamo preso una panetteria in via Lipari, non è che proprio facevamo il pane, era solo una rivenditoria. Mi chiamavano la fornaretta . Ho avuto la mia prima bambina nel 1955, Emanuela, poi nel 1958 è nata anche Flavia. Avevo 36 anni quando è nata la mia ultima figlia, Simona, e prima ancora era arrivata Barbara.

Le mie prime cose le ho scritte sulle pietre di casa, c’erano le case disastrate, così mi sedevo su una pietra e sull’altra scrivevo. Con la penna o la matita, ma forse la penna non c’era, quindi con il lapis, e su dei fogli trovati qua e là. Avevo 15, 16 anni. Ero un’enfant prodige, una secchiona. Fra chiesa e letteratura ho dato proprio tanto. Però niente università perché al liceo Manzoni mi hanno respinta in italiano e dopo non mi hanno mai più vista. Così ho frequentato l’Istituto professionale Solera Mantegazza. Ero un genio io, invece mi hanno detto che ero confusa, perfino che non capivo un tubo.

Insomma ho avuto una vita normale, è dopo che è successo il patatrac. È successo che mio marito si è innamorato di qualcun’altra, penso, ma non ne ho mai avuto le prove, è una vita che le cerco invano. Cerco le prove di chi abbia fatto questa cazzata, ero una ragazza troppo tranquilla, forse lui aveva un’amante. È da lì che ho iniziato a grattarmi le mani, una psoriasi inguaribile che ho ancora oggi: ma è un tale piacere grattarsi che spiace rinunciarci.

Lui ha incontrato un’altra donna, io sono stata sempre molto cornuta, ma non soffrivo di gelosia. Soffrivo e basta. Io stavo a casa con le figlie, mi occupavo della casa. Un giorno l’ho quasi ammazzato: non tornava mai, giocava, allora ho preso una sedia enorme, non so come ho fatto a trovare tanta forza, e gliel’ho spaccata in testa. Gli ho rotto la testa, poi ho chiamato l’ambulanza. Non ho mai capito come ho fatto a sollevare quella sedia, io così gracile.

Non volevo ammazzarlo, volevo dargli semplicemente una cadregata, gli ho spaccato la testa, siamo finiti tutti e due in ospedale, lui era molto incazzato, ma io non pensavo di essere così forte. Mi sentivo debole. Volevo dargli una lezione, vedevo i miei figli che pativano la fame, lui giocava, andava con gli amici e spendeva tutto, stava via anche intere settimane. Mi è scattata l’ira, ero stanca, che poi il panettiere guadagna molto. Era un continuo illudersi: adesso cambia, non cambia, insomma quando è finita è stata una liberazione quasi.

Se non ci fossero state le bambine, le mamme sono così quando ci sono bambini, si armano di pazienza. Comandavano gli uomini a quei tempi, la donna era succube, noi eravamo già predisposte a questa sottomissione. Le donne hanno una posizione diversa ora, nessuno osa più picchiarle come un tempo, io venivo picchiata molto quando lui era ubriaco, ma sopportavo, cambierà, cambierà, invece sono cambiata io ma in meglio. Trentasei amanti ho avuto dopo, sono tanti?

Nel 1965 mi hanno ricoverata al Paolo Pini a Milano, istituto psichiatrico: dieci anni inenarrabili che in parte sono un buco nero, no, ricordo poco e se ricordo non parlerei comunque. Non parlerei mai di questo alla gente. È raro diventare un’Alda Merini, perché tutti vorrebbero ammazzarlo il poeta, perché è un diverso, perché gli altri sono invidiosi. Dicono: sì è brava però intanto è in galera. In manicomio è stato uno sterminio, sono morti tutti i miei amici.

Ci davano anche gli estrogeni, e psicofarmaci a palate, mangiavamo pochissimo, ero una larva, eravamo tutti denutriti. E oggi mi dicono che sono sovrappeso! Non so come sia ora il Pini, so che lì ballano e cantano, non ci sono più tornata. Mi hanno invitata ma non sono andata. Per me è stato un miracolo di Dio essere uscita viva da lì. Ho visto morire tanti ragazzi. Mi ha salvata mio marito che veniva a trovarmi, perché chi non aveva nessuno scompariva all’improvviso nel nulla.

Quando sono uscita è cominciata un’altra tragedia. Spesso mi sono detta stavo meglio lì. Però il problema della sessualità va ridimensionato, anche se ti riempono la testa, io posso scopare di qua, io di là; io invece non ho fatto l’amore per molti anni, ma non ho sofferto per questo. Fare l’amore diventa anche un’abitudine, oggi gli si dà un peso eccessivo.

Molto più male mi ha fatto il ripudio di mio marito, la mancanza di amore. Forse quello che fa ancora più male del ripudio è la gelosia: vedere il proprio uomo con un’altra donna, non ho mai saputo chi fosse, ho delle supposizioni, ma nessuna certezza. Anche se la trovassi però non le darei mai due sberle, io alla fine in manicomio ho trovato la felicità, ho trovato la mia dimensione di donna, non ho più scritto, grazie a Dio non ho più visto né giornalisti né editori: ero matta in mezzo ai matti.

Sono stati anni stupendi. I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti, sono nate lì le mie più belle amicizie, ma ora sono morti tutti. Vanni Scheiwiller, fra i miei primi editori, diceva: fra i grandi amici di Alda Merini metti anche me, che son matto anch’io. I matti sono quelli che avrebbero dato la vita per me.

Quando sono uscita ero contenta come quando passa un mal di denti, però i miei matti mi hanno coperto, mi hanno portato la minestra, mi hanno coccolato, mi hanno voluto molto bene. Ero giovane, qualcuno mi diceva: però che belle gambe che hai, dopo mi mancavano molto.

I matti sono simpatici, non così i dementi, che sono tutti fuori, nel mondo. I dementi li ho incontrati dopo, quando sono uscita: quelli che dicono questa bottiglia deve stare qui, come Sirchia che dice qui non si fuma, e noi invece fumiamo. Sono italiana e sprecona, faccio solo due tiri dalle sigarette.

Fumo come una matta dai tempi del manicomio. Si stava di un bene. In ospedale invece, al Redaelli, cominciano: si cambi la maglietta, si faccia il bagno, che palle. Come ho fatto a rientrare in tutte queste regoline? Ci sono rientrata il giorno in cui il direttore del manicomio, Aldo Dubbiani, mi ha dimessa: per noi tutti è stato un padre, era cardiopatico, noi andavamo da lui e ci chiedeva se volevamo andare a fare un giro, poi ci dava cento lire, significava che avevamo il permesso di uscire.

Allora quando sono uscita per sempre, prima qualcuno (non so più chi) mi ha dato dei soldi, ma non cento lire, di più: ho capito che in quei soldi c’era il valore della libertà. Il manicomio è una follia anche come concetto: bisogna essere matti per fondare un manicomio. Sono andata, sono tornata a casa mia, dove c’era ancora Ettore. Dove dovevo andare? Ancora oggi è casa mia, però la odio un po’, perché è tutta un rebelot. Lui intanto è morto in un modo atroce, di cancro.

Sono tornata a casa dal manicomio e mio marito mi ha detto: “Ah, sei tornata”; la panetteria l’aveva venduta, aveva cambiato lavoro e ho passato fra gli anni più belli della mia vita. Mio marito mi ha aiutata a tornare alla vita fuori dal manicomio, prima mi ha fatto ricoverare poi mi ha tanto aiutata, si vede che era pentito, l’avranno consigliato male. Poi lì non si paga, allora mettiamola lì, si sarà detto.

Dopo sono rimasta vedova, ero sola, nel 1983 ho sposato Michele, medico e poeta tarantino: aveva 86 anni, lo avevo conosciuto da giovane, è stato un grande amore, anche lui era un poeta, ma fra di noi non c’era attrazione sessuale. Lui mi diceva che era solo, allora visto che anch’io ero a Milano da sola, sono andata a Taranto da lui. Ero giovane e vivacissima, così i figli hanno cominciato a dire che l’avevo sposato per interesse.

Quando toccavo le sue tasche erano piene di soldi, perdeva soldi dappertutto, non ci badava, era via con la testa, forse per demenza senile, ma era stato un grande chirurgo. Prendevo tutti quei soldi e li spendevo, c’erano soldi dappertutto, ma quando i figli se ne sono accorti hanno cominciato a farmi la guerra. Ha lasciato a me tutta l’eredità, ai figli niente, hanno sofferto molto.

Oggi vivo con la pensione di mio marito e con il denaro della legge Bacchelli: 6 milioni di vecchie lire ogni tre mesi, in euro bah, io li odio gli euro, sono orribili, sbaglio sempre con i resti. Adesso vorrebbero darmi un milione in più al mese, da quello che hanno detto, a titolo di regalo, ma non ho ancora visto niente. Sul conto corrente non ho niente, zero fisso. Gli editori pagano a sei mesi, io ho un agente, il 20 per cento se lo prende lui, non mi fa neanche vedere l’assegno.

Il ‘Magnificat’ ha venduto oltre 20 mila copie e io non ho i soldi per l’affitto. La legge Bacchelli è un aiuto effettivamente, pensata in modo che il poeta non debba avere problemi che lo distolgano dal suo scrivere. Ti toglie le ambasce di pagare il telefono, l’acqua, la luce, la casa, così poi puoi scrivere tranquillo. E va a finire che scrivi l’Erniade, cioè la storia dell’ernia, invece dell’Iliade: è la quarta volta che mi operano all’ernia. E sono finita in rianimazione, terribile, un mese fa, dolorosissima, ti riempiono di farmaci, catetere, non senti dolore, non senti niente, il brutto arriva dopo.

Dopo anni di manicomio ho cercato di dimenticare le sofferenze, anche quelle degli altri, perché sennò diventa un’ossessione. Se non ho voglia di alzarmi non mi alzo, si logora la vita se ci si forza troppo. Poi ho un altro antidoto quando mi viene la depressione, ancora adesso, vado giù a comperare qualcosa che non mi serve, mentini, roba così, poi mi dico, a cosa mi serve? Mi piace uno stile di vita contenuto, sobrio, prendiamo i frati, mangiano la minestra solo. Tanto più mangiamo, peggio stiamo.

Mi consolo con i tanti amici, tutti giovani e rispettosi, vengono da me perché mi vogliono conoscere e diventiamo amici. Alcuni vogliono scrivere ma io li scoraggio. Per amore di Dio non scrivete, mi fanno leggere le loro cose, ho i cassetti pieni, non sono un editore. Sono giovani romantici, sognatori. Qualcuno si innamora di me. Ma come si fa?

 

Apro la sigaretta

come fosse una foglia di tabacco                      

e aspiro avidamente

l’assenza della tua vita.

È così bello sentirti fuori,

desideroso di vedermi

e non mai ascoltato.

Sono crudele, lo so,

ma il gergo dei poeti è questo:

un lungo silenzio acceso

dopo un lunghissimo bacio.

 

 

credits

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