L’equilibrio nella fotografia

Nelle poche occasioni in cui ci si confronta con altre persone sul rapporto che ciascuno di noi ha con la fotografia, ci si può scoprire legati all’associazione di tale mezzo espressivo con gli esseri viventi. Per quanto la scelta dei possibili soggetti fotografici sia ampia, molti prediligono ritrarre situazioni in cui vi siano elementi umani.

Nel sue celebre testo “Sulla Fotografia“, Susan Sontag in un passaggio afferma:

“Fotografare una persona equivale a violarla, vedendola come essa non può mai vedersi, avendone una conoscenza che essa non può mai avere; equivale a trasformarla in oggetto che può essere simbolicamente posseduto.

Questa risuona come una sentenza e ne ha anche l’accezione, fosse anche solo per la scelta drammatica di utilizzare verbi come “violare” e “possedere“. Il fatto che che una persona, in fotografia, possa essere conosciuta dall’autore della fotografia oltre il limite delle normali interazioni umane è una suggestione interessante. La figura, una volta ritratta, viene influenzata dalla fantasia e dall’ottica di chi la osserva, e si eleva a oggetto di interpretazione. Per quanto sia surreale, l’immagine di quella persona trascende la definizione di se stesso e diviene incorporeo. Reciso dalla sua origine, diventa idea – in questo caso linee e gradazioni. Questo può essere detto di qualunque forma di arte.

Il ritratto in fotografia

Per quanto concerne la valenza del ritratto in ambito fotografico, fotografi come Gordon Parks, Josef Koudelka, Steve McCurry, Daido Moriyama o Diane Arbus, hanno a lungo incentrato il loro lavoro sul ritratto. Anche se in situazioni diverse e con approcci compositivi variabili. Diane Arbus, seguendo le orme di Robert Frank e del poliedrico Henri Cartier Bresson, acquisì dal primo l’ambizione a raccontare il mondo, dal secondo il fatto di dare una forma adeguata alla propria voce. Frank viaggiò attraverso l’America per renderla più concreta nella mente dei suoi abitanti. Bresson era noto come fine e attento maestro della composizione, solito tramutare semplici scatti in esercizi di stile e di disciplina, in cui far sì che ciascun elemento nella foto non fosse involontario.

Diane Arbus non fu la sola e unica a seguire tale iter, ma enunciò una frase emblematica, forse troppo ambiziosa, ma chiara nel determinare il comportamento e le finalità di un movimento artistico in quell’era:

Io sono convinta che vi siano cose che nessuno avrebbe visto, se non le avessi fotografate.”(Diane Arbus)

Non conta il mezzo, ma il soggetto

La fotografia infatti si diffuse così tanto perché mostrava qualcosa di cui la gente non poteva avere un’esperienza personale nella vita di tutti i giorni. Si differenziò poi in fotografia artistica e amatoriale, con non poche problematiche di natura puramente semantica. Non che sia un male, ma si diede vita a nocive abitudini comportamentali, secondo cui il nuovo non era carente solo dei mezzi, ma anche del diritto di potersi raffrontare con l’elevazione dei mezzi classici. Fortunatamente, con cadenza regolare, questi dibattiti vengono accantonati in quanto futili diverbi lontani dal vero fulcro tematico della fotografia: non conta con cosa scatti, ma cosa scatti. Conta cosa si prova, non cosa ti viene detto al riguardo.

Oggigiorno chiunque può scattare una foto, tornare a casa e postarla su internet nell’arco di minuti. Molte persone, in risposta a questo, suggeriscono una tecnica di restrizione personale che possa ricondurre a ritmi più lenti, caratteristici dell’era analogica: lasciar sì che passi del tempo fra lo scatto e l’editing/pubblicazione della foto. Lo scopo è quello di ridurre l’attaccamento emotivo del fotografo alla sua “creatura”. Dopo mesi ci si può dimenticare del “volto” che la fotografia aveva, a maggior ragione se non la si ha guardata per lungo tempo. Si riscopre allora la foto e si sviluppa una criticità artistica.

Questa scelta è opinabile, ma ciò che interessa è il fatto che sia esemplificativa di quale sia il rapporto fra autore e opera, in questo caso nella fotografia. Così come i genitori non sempre sono obiettivi nei riguardi dei figli, allo stesso modo gli autori di una qualche forma espressiva non possono affermare con sicurezza di non essere eccessivamente accondiscendenti o distruttivi nei riguardi della loro creazione.

Questa incertezza cognitiva può divenire un solido equilibrio dinamico, a patto che si abbia coscienza del fatto che ogni fotografia sia soggetta a una oggettivazione e una conseguente valutazione (a priori e a posteriori). Più questi due momenti sono distinti, più si può essere oggettivi nei riguardi del proprio lavoro.

FONTI

S. Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, 2004

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