Perché i poeti son reietti?

Accade spesso di pensare che certi poeti siano un po’, come dire, sfigati. Questa visione, nonostante non sia esattamente corretta, ha qualche fondamento di realtà; anche se, ovviamente, la questione è ben più complicata di quel che pare. Il poeta è un reietto? Basti pensare a Giacomo Leopardi con la sua Tubercolosi Ossea, Charles Baudelaire con i suoi vizi (più o meno salutari), Amelia Rosselli e la sua follia…

Ce ne sono tanti di esempi di questo genere nella storia della poesia. Non che sia una costante: Montale era un uomo di successo ed è riuscito, solo con la poesia, a raggiungere uno stato di benessere e di stima diffusa. Eppure non brillava di certo per i suoi versi spensierati. Anzi, dai suoi versi sembra chiaro che si sentisse a margine. Del resto, cosa più di questa sensazione ha caratterizzato lungo i secoli i poeti? Alla fine, anche i più amati, non lasciavano mai trasparire dai loro versi soddisfazione. In loro v’era un senso di diffusa tristezza, marginalità, esclusione. Alcuni diranno che è un modo di dire, che alla fine son “cosucce”, che non è in questo la Poesia

Gli aedi nell’antichità

Proviamo allora a pensare alle origini della poesia antica: gli aedi, dei vagabondi che cantavano agli aristocratici i loro versi. Questi cantori itineranti erano stimatissimi e amati, ma pur sempre ai margini della società. E non perché fossero dei reietti veri e propri. Il poeta allora era considerato alla stregua dell’indovino, al confine tra l’umano e il divino, una specie di pontefice tra il mondo reale e l’Aldilà. E forse proprio per questo erano distanti dalla società: non appartenevano fino in fondo a questo mondo. Tanto che si sono sviluppati dei culti di certi Lirici Greci e lo stesso Omero era trattato alla stregua di un Dio.

Oggi non esiste più il concetto di poeta-aedo, tanto meno quello di poeta vate, ma bisogna sempre tenere in conto che un frassino trae spunto e nutrimento dalle radici che ne hanno fatto l’altezza. Per questo si può dire ancora oggi che il Poeta si mantiene al margine, sacralizzandosi in altra maniera. Definirlo pazzo sarebbe deleterio, soprattutto una volta letti certi versi.

Le responsabilità dei poeti

Chi scrive poesia ha su di sé una responsabilità molto forte, su cui spesso si riflette poco: il poeta ha da confrontarsi con un genere che ha dato origine all’esigenza stessa di una letteratura, in funzione di ricordo non di un fatto, ma di un sentire diffuso. I poemi classici, ad esempio, non vanno confusi con resoconti storiografici di una società, ma sono espressioni delle radici del sentimento umano e delle conseguenze che questo ha sul nostro mondo, per questo sono stupefacenti e ancora oggi leggerli o sentirne la trama.

I poeti evidenziano coi loro versi un humus esistenziale comune e lasciano la testimonianza di qualcosa di fondamentale: la tragedia dell’essere. Per questo si trovano a margine: questo compito non può essere svolto da un essere umano impegnato nel negotium. Solo un escluso sociale, un essere marginalizzato, può caricarsi del peso di un’epoca, con la forza anche di chi vede oltre, perché il suo pensiero sarà sempre rivolto altrove.

Quindi il poeta viene visto come escluso sociale non perché sia davvero uno sfigato: è un essere umano come gli altri, che ha però il compito di rappresentare e onorare una generazione, un popolo, un’umanità. E il bello di leggere certe anticaglie è proprio il fatto che questo popolo, magari distante secoli da noi, sia così vicino a noi, se letto nel profondo dei canti ad esso dedicati. Canti che i poeti sono stati capaci di portarci agli occhi, dimostrando che il tempo non ha mai davvero cambiato qualcosa nel nostro esserci.

Sì, saranno romanticherie, ma rimane che Montale non era depresso, Leopardi non era sfigato, Baudelaire non era vizioso: avevano solo un proposito di vita assai alto, con cui confrontarsi è difficile. Avevano da costruire un dizionario delle pagine più intime di loro stessi, raccogliendo, a partire dal proprio effluvio, le radici di un flusso che unisce molti di noi, o perlomeno quelli capaci di fermarsi e leggere senza la fretta di una trama o di un colpo di scena.

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