Incastrati nella vita

È indubbiamente vero che le nuove tecnologie (soprattutto in campo medico) abbiano contribuito a migliorare di gran lunga la qualità della vita.

Certo è che bisognerebbe capire quand’è giunto il limite: quando è più giusto lasciare che la natura “faccia il suo corso” o se sia preferibile lasciare un ottantenne con pacemaker, una protesi alla gamba, l’Alzheimer allo stadio più avanzato, attaccato ad un respiratore automatico, e fargli finire in questa maniera ingloriosa i pochi anni che gli restano. Quando poi a tutto questo si somma anche una buona dose di bigottismo e precetti religiosi, comprendi capisci che non c’è mai fine al peggio.

Tutti ricorderanno il caso di Eluana Englaro, la donna che, a seguito di un incidente stradale, restò in stato vegetativo per ben 17 anni. La scelta di Beppino Englaro, suo padre, di staccare le macchine che tenevano in “vita” ciò che ormai non era nient’altro che l’involucro di carne che un tempo aveva racchiuso l’anima di sua figlia, fu ampiamente discussa ed aspramente criticata.

Eppure tutta quest’avversione contrasta con l’idea che accompagna l’etimologia della parola “eutanasia” (dal greco εὔ – θάνατος, “buona morte”). Molti converrebbero sul fatto che, potendo scegliere, sarebbe da preferire una morte dolce e consapevole (per quanto dolce possa essere la morte).

Gli ostacoli all’eutanasia: i casi di Eluana Englaro e Piergiorgio Welby

Tuttavia, la Chiesa cattolica si schiera nettamente contro l’eutanasia, considerandola alla pari dell’omicidio o del suicidio.

Per il caso Englaro la questione abbastanza delicata era di assumersi la responsabilità di “staccare la spina”, laddove non vi era una testimonianza scritta della persona interessata che autorizzava tale atto (seppure Eluana un giorno ne avesse parlato distrattamente con il padre).

Ben diverso fu il caso di Piergiorgio Welby, affetto da distrofia muscolare fin dall’età di 16 anni, una malattia che logora lentamente i muscoli fino a costringere alla più completa paralisi. La cosa terrificante però è che il cervello resta perfettamente cosciente e nel pieno delle sue capacità; sei sempre tu, ma in un corpo che ormai è solo un peso morto e il bip del respiratore automatico che inesorabilmente scandisce i tuoi battiti.

In queste condizioni arrivò Pietrgiorgio Welby all’età di 61 anni, dopo una vita di sofferenze. Dopo l’ennesimo attacco respiratorio, arrivò alla decisione di chiedere la cessazione dell’accanimento terapeutico. Per ritrovare una dignità, anche in questa condizione.

Esiste la morte dignitosa?

Ma può essere dignitosa la morte? La vita può essere dignitosa, la morte è altro.

Descrivere con superficialità la morte per eutanasia come “dignitosa” nega tutta la tragicità che c’è dietro il morire: la tragica scelta di un padre che sceglie di dare la morte a sua figlia, di una moglie che osserva impotente suo marito morire.

La cosa paradossale, verrebbe da dire, è la ferocia con la quale la Chiesa si schiera contro questa pratica.

Se è vero, come ci insegnano fin da bambini, che questa vita è solo di passaggio, che questo corpo è solo un guscio, in attesa di una “vita vera” dopo la morte, allora perché tutta questa avversione? Perché quest’orrore per la morte? Perché questo testardo e insensato accanimento non a vivere, ma semplicemente a mantenere vive delle funzioni biologiche? È meglio lasciare una ragazza nel limbo di un coma nero e profondo lungo 17 anni?

Finchè il rispetto per un Dio ignoto sarà più forte del rispetto per la vita umana, la società non farà mai alcun passo avanti.

FONTI

IlPost

CREDITS

Copertina (nella foto: a sx Mina Welby, a dx Peppino Englaro)

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