Il limite del reporter

Anna Maria Ortese, una delle grandi figure del giornalismo italiano, nel 1953 pubblica tramite Einaudi una delle sue opere più conosciute: “Il mare non bagna Napoli“. Destreggiandosi tra narrativa e reportage, la scrittrice tesse una critica sociale d’impatto, dipingendo una Napoli decadente, povera, assolutamente lontana dall’ideale romantico della città propinata dalle cartoline del tempo.

Il primo capitolo si apre con la storia di Eugenia. La bambina, “quasi cecata” dalla nascita, come dice l'”occhialaio” visitandola, ha sempre vissuto in uno dei quartieri più degradati di Napoli. Un quartiere che per i suoi abitanti è tutto, così chiuso in se stesso che la gente, non sapendo cosa ci sia oltre, nemmeno sa che esista un porto, un mare, un cielo che corre all’infinito verso un orizzonte dai riflessi dorati. Eugenia non ha mai avuto gli occhiali e ciò le ha permesso di interporre un velo tra sé e il mondo insano che la circondava. Tra sé e i visi butterati dei genitori. Ma ecco che arriva il momento di appoggiare quelle due fragili lenti sul naso della piccola: ed è l’orrore.

Siamo nella Napoli del dopoguerra, in cui tutto viene messo in discussione e intanto il popolo si arrangia: una città che non ha nulla da dare, all’osso, abbandonata dallo Stato e rosicchiata nel profondo dai suoi cittadini che cercano la sopravvivenza. Dalla penna dell’Ortese emergono immagini tremende, il loro acme coi Granili. Eretti nel 1779 ad uso di magazzini, negli anni ’40/’50 divengono rifugio per i senzatetto di Napoli. La popolazione al loro interno aumenta in maniera così esponenziale che la struttura diventa insufficiente a livello abitativo e sanitario. Una città nella città, dotata di una struttura sociale
e di un’economia interna di sussistenza. La reporter vi entra e, scalando le classi sociali dei Granili, salendo di volta in volta di piano, raccoglie le testimonianze di quella povera gente.

In questa serie di interviste l’Ortese tenta di mantenersi distaccata, neutrale, forse per evitare di cadere in fallo andando a toccare i tasti dolenti del proprio passato. Quello che però sembra trasparire dal suo modo di descrivere le situazioni da lei incontrate è un atteggiamento quasi superbo. I bambini a cui lei vuole dar voce diventano ben presto larve, come se quella condizione di estremo disagio avesse rubato loro l’identità e ne avesse preso il posto. La scrittrice suscita compassione, ma per quelle larve da parte sua di compassione sembra non essercene.

L’Ortese ama la sua città, quegli “effetti di meravigliosa confusione” (come dice nelle pagine de “L’infanta sepolta“), allo stesso tempo però lei è tutto tranne che napoletana. È spettatrice e giudice di un’amara verità, con le sue parole pronuncia una sentenza per una città sua e non più sua. Binomio incoerente e affascinante che si rivela nelle crude parole con cui descrive i Granili e  il moccioso che si prende beffe di lei mentre si reca a casa del Compagnone (suo vecchio amico e collega della rivista «Il Sud»).

Critica corrosiva alla città di Napoli. Critica che ha sollevato grandi dibattiti:

A causa dell’argomento, anche il mio libro si prestava alle discussioni: fu giudicato, purtroppo, un libro ‘contro Napoli’. Questa condanna mi costò un addio.” (da “Il mare non bagna Napoli“).

Come si può dunque definire il suo scritto? Un tentativo estremo di spingere il lettore ad immedesimarsi in quella situazione, in tutta la sua “disumanità”, o una spietata mancanza di tatto? Come si deve approcciare un giornalista ad una realtà così vicina al proprio vissuto e così scottante?

FONTI

EnciclopediaDelleDonne

A.M. Ortese, Il mare non bagna Napoli, 1994, Adelphi

CREDITS

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