DELIRIOUS MILAN – LA TORRE VELASCA

Da piccolo non amavo molto stare a scuola, non sono mai riuscito a concentrarmi a lungo durante le lezioni. Allora vagavo con la mente, guardando fuori dalla finestra e lei era lì, stagliata contro l’azzurro del cielo. Passavo anche molto tempo a giocare sul terrazzo dei miei nonni, in centro, e lei era ancora lì, emersa dai tetti rossicci; la Torre Velasca.

Quella volta che stavo leggendo un libro, addossato a una colonna del portico del cortile centrale dell’Università Statale; quella volta che con una ragazza al mio fianco passeggiavo mangiando un gelato, lei era sempre lì, una gentile signora che accompagna le vite di noi milanesi ormai da cinquantacinque anni.

Certo non è una di quelle signorine aggraziate e sensuali che siamo abituati a vedere oggi; è piuttosto una bruttina signora d’ altri tempi, una di quelle che nelle foto d’epoca in spiaggia indossava quegli stranissimi costumi da bagno, che effettivamente nascondevano le pudenda invece che esporle;  una mamma bavarese, di quelle che ti riempiono di schiaffi tutti i giorni, ma quando torni a casa con le ginocchia sbucciate è lì che ti aspetta con un sorriso e bel pezzo  di strudel  fumante.

Sono d’accordo con l’opinione di molti: al primo sguardo la Torre Velasca è un mostro che tira pugni negli occhi di chiunque la veda  ed essendo uno degli edifici più alti di Milano è difficile non vederla.

Sembrerebbe inutile descrivervi la forma del grattacielo più famoso della città, ma come spesso accade con le cose che ci troviamo davanti tutti i giorni, ogni tanto guardarle da un altro punto di vista le investe di nuova luce, facendoci notare aspetti che prima non avevamo colto. Come nell’esempio della mamma bavarese può accadere che da una diversa angolazione il nostro mostro si riveli in realtà essere assai gentile.

BBPR è senza dubbio il gruppo di progettazione che ha fatto del rispetto nei confronti del contesto in cui andava ad inserire le proprie architetture il suo tratto distintivo. Desta quindi qualche dubbio il fatto che abbiano accettato di realizzare un intervento violento come un grattacielo in pieno centro storico.

In realtà il disegno degli alzati rivela un’attentissima analisi del territorio circostante. L’edificio è composto da due volumi, uno posto sopra l’altro: quello più in basso è snello e longilineo, l’altro è più tozzo e largo. La divisione, nata dalla duplicità di funzioni terziarie e residenziali, legge il tessuto storico e lo reinterpreta all’inverso: ne riprende la densità e si allarga al di sopra dei tetti circostanti, si snellisce per non densificare troppo al di sotto.

Il coronamento del corpo superiore riporta in luce lo studio e la conoscenza della città, con una versione rivisitata in chiave razionalista di una merlatura che rimanda direttamente alla caratteristica dei torrioni del Castello Sforzesco.

Molto ben studiato è il punto di incontro tra i due volumi, dove una rientranza crea una linea di ombra che smaterializza il punto di unione, dando quasi l’impressione che il corpo soprastante leviti al di sopra dell’altro. Di notte questa zona è invece illuminata, invertendo il gioco di chiaro-scuri.

Il disegno delle facciate ricorda un’improvvisazione jazz: le finestre sono disposte liberamente, come se fossero un assolo, ricondotte a norma dalla presenza di elementi in granito che, disegnando una serie di linee sulla facciata, generano il ritmo di accompagnamento in cui il solista si può esibire.

Particolari fondamentali sono le linee strutturali in facciata che in occasione del cambio di volume creano i così caratteristici puntoni inclinati che hanno valso alla Torre il soprannome di “Grattacielo con le bretelle”.

Nel complesso emerge un’attenzione per la dimensione decorativa del tutto inusuale per quegli anni (cfr. Ornamento e Delitto, di Adolf Loos, in cui la scelta di decorare è proposta come il peggiore dei crimini!). La scelta del marmo Veronese rosato come materiale principale per il rivestimento è in netto contrasto con le filosofie che in quel periodo spingevano sempre più verso un’inquietantissima uniformità di grigio cemento.   Forse è proprio qui che l’intervento raggiunge il massimo dell’interesse: i progettisti sono riusciti ad andare contro le istanze della loro epoca per creare un’architettura che, nonostante il suo brutale aspetto, potesse davvero appartenere al luogo di realizzazione.

Quando un edificio parla del posto in cui esiste, esso si distacca dall’essere una pratica, una forma, un lavoro e diventa arte, vita… architettura.

Filippo Bottini

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