Room: il mondo di un bambino

Room” è l’ultimo film di Lenny Abrahamson, film che ha valso l’Oscar alla miglior attrice protagonista a Brie Larson e vincitore del People’s Choice Award come miglior film al Toronto International Film 2015. Si tratta di una trasposizione cinematografica del romanzo “Stanza, letto, armadio, specchio” di Emma Donoghue, che è anche produttrice e sceneggiatrice del film; la vicenda rappresentata è ispirata al caso Fritzl, nome usato in riferimento a un episodio di cronaca austriaco: una donna, Elisabeth Fritzl, è stata rinchiusa in un bunker sotterraneo costruito dal padre per 24 anni, il quale ha ripetutamente abusato della figlia generando sette figli.

Nel romanzo come nel film la storia è un po’ diversa: Joy Newsome (Brie Larson) vive in una piccola stanza insieme a suo figlio, Jack (Jacob Tremblay), il quale è stato indotto a credere dalla madre che non esista niente al di fuori delle mura entro cui vivono e che tutto ciò che vede nella loro tv è finto. Ogni tanto ricevono la visita di quello che Joy chiama “Vecchio Nick”, l’uomo che l’ha rapita sette anni prima e che tiene lei e il bambino rinchiusi nella camera, che si apre con un codice che solo lui conosce. Lui si palesa generalmente di notte, solo per abusare di Joy e per fornire a lei e al piccolo quel poco che basta loro per sopravvivere. Quando Jack compie 5 anni, Joy decide di raccontargli la verità e studia un piano per farlo uscire dalla stanza e chiamare aiuto; questo stratagemma ha successo e i due vengono finalmente liberati.

Ma se questo dovrebbe essere il momento più bello delle loro vite, in realtà Jack si trova spaesato nello scoprire il mondo esterno e Joy soffre i postumi della terribile esperienza subita, cadendo in uno stato di forte depressione e inadeguatezza. Così come sono sopravvissuti insieme nell’opprimente spazio della stanza, solo insieme Joy e Jack possono affrontare il vasto mondo davanti a cui ora si trovano.

I voti dal web: 3,6 su 6 da MYMovies.it, 3 su 5 da Comingsoon.it e 8,3 su 10 da IMDb.

Senza dubbio, si può affermare che l’Oscar a Brie Larson è stato più che meritato: la sua interpretazione è grandiosa, adatta a questo difficile ruolo. Non piange troppo nè urla nè resta immobile in stato catatonico come potrebbe fare una donna nella sua situazione: mostra la sua nevrosi ma anche quella voglia di lottare che le è rimasta dentro, la voglia di non arrendersi e di cercare ancora la libertà per sè e per il suo bambino.

Notevole anche l’interpretazione di Jacob Tremblay: così piccolo ma così bravo, sembra che sia a suo agio nel proprio ruolo. Buono il filtro, le inquadrature e il copione: battute come “gli alberi sono troppo grandi per essere veri” (voce narrante di Jack che spiega che idea ha della realtà) fanno capire fino a che punto si è stati accurati nel far vedere la vicenda allo spettatore attraverso il punto di vista di un bambino, totalmente inconsapevole dell’orrore di cui fa parte. Oltre che inconsapevole, all’inizio Jack ci appare persino allegro, sereno, perfettamente inserito in un contesto famigliare quasi “normale”: lo vediamo alzarsi insieme alla madre, salutare persino gli oggetti della stanza e dare una mano con le piccole faccende domestiche. Come qualunque altro bambino nella situazione, Jack non si rende conto del dramma di cui è vittima sua madre nè sente la necessità di scappare dalla camera, tant’è che quando la madre inizia a raccontargli cosa le è successo lui oppone inizialmente resistenza, rifiutando di dover apprendere e accettare un’altra verità da quella che gli è sempre stata raccontata.

Ecco perchè questo film funziona: non si concentra tanto sull’esperienza terribile di Joy, ma sulla realtà di Jack. Rapimento e violenze sono già avvenute quando il film inizia; Jack c’è già, la situazione è a un livello statico. Il vero dramma inizia quando tutti tirano un sospiro di sollievo, quando normalmente si sarebbe pronti a calare il sipario su una conclusione felice e a battere le mani: è la ritrovata libertà infatti che causa scompiglio nelle vite di madre e figlio, vite che fino a quel momento erano state “regolari”, cioè scandite giorno per giorno dalla stessa immutabile quotidianità. Joy cerca di affrontare i propri demoni sottoponendosi a un’intervista, durante la quale però viene insinuato che lei non abbia fatto la scelta migliore per suo figlio, che se lo sia tenuto egoisticamente accanto quando poteva chiedere al suo carceriere di portarlo in un ospedale e farlo adottare, in modo che il piccolo avesse un’infanzia “normale”. Questo genera sensi di colpa e angoscia in lei, aggravando le sue condizioni psichiche, mentre Jack vorrebbe semplicemente continuare a vivere serenamente con lei, ignaro rispetto a qualsiasi danno alla sua persona. A volte esprime persino la volontà di tornare in quella angusta stanza, pur di ritrovare insieme alla madre l’equilibrio che percepisce di star perdendo: per lui, in fondo, l’unica vera realtà risiede ancora tra le mura in cui è cresciuto, il suo universo resta quel piccolo spazio.

In altre parole: “Room” è adatto a chiunque voglia vedere le tragedie già note attraverso un punto di vista interno ma inconscio, come quello di un bambino, attraverso una diversa prospettiva.


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