L’orologio: il maledetto ordigno

La caducità della vita umana e lo scorrere del tempo sono, da sempre, temi fondamentali e immancabili della letteratura; temi che durante il Barocco assumono nuovi particolari connotati.  La nuova iconografia dell’universo seicentesco volta a suscitare meraviglia, stupore e concentrazione verso l’interiorità umana, infatti, comporta inevitabilmente una nuova percezione spaziale e temporale.

 

Il secolo degli artifici, dell’eccesso, dell’illusione e della teatralità porta ad un irreversibile declino della visione tolemaica del cosmo, alla dilatazione delle forme: dall’uniforme perfezione circolare del cosmo umanistico-rinascimentale, il mondo di dilata e si deforma compiendo un movimento ellittico irregolare che, sul piano pratico, rappresenta la rivelazione dell’orbita ellittica dei pianeti e, quindi, la nuova concezione del mondo. Questa nuova percezione della realtà attraversata da continui mutamenti – ovviamente rappresentati anche artisticamente: basti pensare alle piazze che si allungano in ellissi, ad esempio San Pietro, e le piante delle chiese che tendono a diventare ellittiche, come quelle progettate dal Borromini –  si ripercuote anche nella concezione temporale: è durante il Barocco, infatti, che l’uomo prende piena consapevolezza della fugacità del tempo. Non a caso, infatti, orologi, nature morte, rovine e teschi sono elementi caratterizzanti della produzione artistica e letteraria di questa sfarzosa epoca. In particolare, per quanto riguarda la poesia barocca, quello dell’orologio è un tema molto ricorrente che, unito al sentimento di caducità della vita e dello scorrere del tempo, hanno dato vita al sonetto di Ciro Da Pers intitolato Orologio da rote.

Mobile ordigno di dentate rote
lacera il giorno e lo divide in ore,
ed ha scritto di fuor con fosche note
a chi legger le sa: sempre si more.

Mentre il metallo concavo percuote,
voce funesta mi risuona al core;
né del fato spiegar meglio si puote
che con voce di bronzo il rio tenore.

Perch’io non speri mai riposo o pace,
questo, che sembra in un timpano e tromba,
mi sfida ognor contro all’etá vorace.

E con que’ colpi onde ’l metal rimbomba,
affretta il corso al secolo fugace,
e perché s’apra, ognor picchia alla tomba.

Se nella letteratura cavalleresca il maledetto e abominoso ordigno descritto da Ariosto era l’archibugio, ora il suo posto viene preso dall’orologio: un ordigno – anch’esso prodotto dall’uomo – che con i suoi rintocchi scandisce il tempo rendendolo più visibile agli occhi dell’uomo e che allo stesso tempo rende più reale l’immagine della morte come invisibile compagna della vita umana. La spettacolare metafora  della vita terrena che, lacerata dalle dentate rote che dividono il giorno in ore, bussa ad ogni tomba conclude questa meravigliosa poesia dandoci quel tocco macabro che caratterizza a pieno il gusto barocco.

 

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