Il linguaggio “segreto” dei tatuaggi

Per strada, al supermercato, in palestra, in chiesa, in metropolitana, tra le postazioni di lavoro di un ufficio. Caviglie, colli, polsi, braccia, décolleté, polpacci… Sono molto lontani i tempi in cui a tatuarsi erano solo i malavitosi o i marinai in stile Braccio di Ferro. Tant’è che ormai nessuno si stupisce più di tanto di fronte a giovani e giovanissimi, ma anche a persone “leggermente” più attempate, che fieramente sfoggiano porzioni più o meno estese di pelle decorate più o meno sobriamente, con forme e disegni tra i più disparati. Quantificando: 13 italiani su 100 hanno almeno un tatuaggio, per un giro d’affari che vale all’incirca un centinaio di milioni di euro.

Il tatuaggio è diventato un fenomeno di massa che tuttavia continua a conservare il fascino di piccola, innocente ed eccitante trasgressione. Un fenomeno che ha oltrepassato i confini della cultura prettamente underground, cui sono legate le sue origini, coinvolgendo tutti i ceti sociali e tutte le età. Una risposta condivisa da molti, ma a quale domanda/bisogno?

 

Le motivazioni che stanno alla base della scelta di farsi un tatuaggio sono estremamente varie. Alcune volte di natura personale e intima, altre volte non vale nemmeno la pena farsi troppe domande, trattandosi di mera moda o di capriccio. Qualunque sia la motivazione nella maggioranza dei casi la molla che scatta è il desiderio di distinguersi dagli altri, di affermare la propria diversità rispetto al resto del mondo senza il bisogno di usare le parole. Il denominatore comune è, quindi, un bisogno comunicativo. Incarnando una parte importante dell’identità della persona, il tatuaggio è il modo per esternare “qualcosa” che normalmente viene tenuto nascosto o represso. Questo “qualcosa” varia profondamente a seconda dell’età. Per un adulto la scelta di tatuarsi potrebbe rispondere al bisogno di esorcizzare la paura, l’insicurezza e la solitudine di un momento particolarmente difficile o di fissare il tempo in un preciso istante o ricordo. Per i teenager, d’altro canto, potrebbe essere il modo per mostrare agli altri e – magari – chiarire a se stessi una personalità ancora in corso di maturazione, per rifiutare l’omologazione e per ribellarsi ad un sistema imposto dall’alto: dai genitori, in primis, e dalla società. Curioso, se si pensa che alle origini il tatuaggio era pensato proprio come segno palese di omologazione, integrazione e appartenenza. In Polinesia, ad esempio, ogni momento cruciale della vita (ad esempio l’ingresso nell’età adulta o il matrimonio) era fisicamente sancito dall’apposizione di un tatuaggio simbolico.

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Per quanto alcuni individui trovino affascinante “marchiarsi a fuoco” ad esempio con le iniziali proprie o altrui – riecheggiando le pratiche degli allevatori bisognosi di riconoscere le proprie bestie nei pascoli allo stato brado – la scelta del disegno e della parte del corpo da tatuare non sono mai casuali e rispecchiano tratti della personalità legati all’inconscio. La psicologia si è davvero scatenata nelle interpretazioni per decodificare il linguaggio segreto del tatuaggio. Secondo gli esperti in materia pare che, ad esempio, le persone pessimiste e poco fiduciose in loro stesse tendano naturalmente a tatuarsi la parte sinistra del corpo, mentre gli “attivisti del buonumore”, gli adattabili e gli estroversi preferirebbero la parte destra, viceversa collegata al futuro. Tatuarsi il tronco denoterebbe fermezza e concretezza nel prendere decisioni; la scelta delle gambe, invece, farebbe emergere infantilismo e superficialità. Chi sceglie di tatuarsi le braccia generalmente sta attraversando una fase di maturazione. La caviglia è la zona preferita delle donne gelose. Optare per una parte nascosta del corpo – riservata a pochi eletti – in generale sarebbe indice di timidezza ed insicurezza.

Naturalmente anche la scelta del disegno è – come è intuitivo – parte fondamentale del significato di un tatuaggio. Le grandi macchie nere e sinuose dei tribali sarebbero la naturale scelta di chi proprio non accetta di essere parte della “massa”. Gli ideogrammi giapponesi rivelerebbero, invece, un animo raffinato e delicato, in genere fedele agli affetti. I motivi celtici e i guerrieri sarebbero legati ad un’idea di violenza ed aggressività. Il drago come metafora di forza, l’’aquila come libertà e ribellione. L’ape rappresenterebbe l’intraprendenza; il delfino e la fata, fortuna. La farfalla, cambiamento e femminilità. La fenice, rinascita. Il gatto, istinto e indipendenza. La libellula, maturità e bellezza. La rondine, fedeltà e amore eterno. L’ancora, salvezza e speranza. L’occhio, saggezza e consapevolezza. L’orchidea, raffinatezza, fascino e seduzione. E chi più ne ha più ne metta!

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Io in tutto ciò, una domanda: ma chi decide di tatuarsi sarà consapevole di tutto questo? I voli pindarici della psicologia reggono sotto il peso della mera ricerca dell’estetica? Davvero non si tratta di semplici sfizi come i piercing e gli orecchini?

Ad ogni modo, non vi sembra strano che una società che ha imparato così bene a cambiare casa, lavoro, partner, affetti in uno schiocco di dita, così mobile e dinamica, slegata da qualsiasi tipo di legame, senta la necessità, in fondo, di aggrapparsi saldamente e in maniera così definitiva a ricordi, simboli e iniziali?

 

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