In nome di mia figlia

Nelle sale italiane dal 9 giugno, In nome di mia figlia è il terzo film di Vincent Garenq su un caso giudiziario: dopo “Presunto colpevole” e “L’inchiesta”, il regista si concentra su un caso famosissimo della giustizia francese – non altrettanto famoso in Italia – ovvero il caso Bamberski, durato oltre trent’anni e conclusosi da poco nel 2012.

Nel 1982 muore infatti Kalinka, figlia quattordicenne di André Bamberski, mentre era in vacanza in Germania, con la famiglia, nella casa del patrigno. Il caso viene fin da subito archiviato come un incidente, ma tutto sembra ricondurre al patrigno Dieter Krombach, a partire da un’autopsia sommaria alla quale egli era presente, per ragioni sconosciute. André decide dunque di indagare e di non mollare di fronte a quella che considera una manifestazione dell’incompetenza giudiziaria tedesca. Fa dunque appello alla giustizia francese – ma anche questa si rivelerà corrotta e indulgente – dovendo portare avanti da solo il proprio processo. I vari ostacoli cambieranno irreparabilmente la sua vita e i suoi rapporti, come solo una tragedia del genere e l’ossessione che ne può derivare possono fare.

Immagine inserita dal revisore

L’obiettivo del regista era evidentemente quello di ricreare fedelmente le vicende giudiziarie, così da restituire a chiunque la verità dei fatti. Garenq ottiene così un thriller giudiziario sobrio e mai esagerato, che, pur partendo dal libro autobiografico scritto da Bamberski, riesce a garantire la piena oggettività. Il regista infatti ha fatto un grande lavoro preparatorio, intervistando tutto il nucleo familiare coinvolto, ex moglie di Bamberski compresa. Sarebbe stata senz’altro lei altrimenti il personaggio che più avrebbe perso in caratterizzazione all’interno del film, dato che i due ex coniugi non si sono parlati per molti anni, e dallo scritto di Bamberski non poteva trasparirne una descrizione oggettiva. Nonostante tutto ciò, è comunque la madre di Kalinka a rimanere il personaggio più complesso, e senz’altro il più ambiguo: è una madre che cerca di superare il lutto della perdita della figlia andando avanti, ma che così facendo rifiuta in ogni modo di vedere la realtà, a tratti inquietantemente evidente, che quasi occulta. È un personaggio difficilmente perdonabile, ma senz’altro comprensibile.

Al di là del caso giudiziario infatti, la narrazione vuole essere soprattutto un racconto universale, che possa arrivare alle corde di un qualsiasi pubblico al di fuori del territorio francese. Così, oltre ad attraversare le molte sconfitte e le piccole vittorie del protagonista, scandite temporalmente con salti temporali attraverso i trent’anni; ciò che più notiamo è il grande amore di Bamberski. Quell’amore di un padre per una figlia, che s’intreccia con l’ossessione della giustizia, in un qualche modo sempre contenuta e mai portata al limite, anche quando, paradossalmente, si risolve nell’illegalità. È la storia di un padre che sente di aver tradito la figlia lasciandola partire, non proteggendola a sufficienza, come invece il suo ruolo richiederebbe. È la storia di un riscatto genitoriale, anche in ragione del fatto che in casi del genere è difficile essere buoni genitori, come poi dimostrerà il deteriorarsi del rapporto con l’altro figlio.

Sembra poi quasi inutile sottolineare la bravura di Auteil – quando mai l’attore delude? -, che riesce al meglio a far emergere il lato umano di questa ossessione giudiziaria, evidenziando il carattere di un personaggio assolutamente poco espansivo, ma che trasmette comunque il suo amore infinito grazie a dedizione, e caparbietà.
Un film dunque che ci restituisce, entro i limiti del cinema, la complessità di una vicenda simile, inconcepibile dal punto di vista giudiziario, e solo immaginabile altrimenti dal punto di vista emotivo.

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