Meglio morti che rossi negli Stati Uniti degli anni ’50?

Se avessimo potuto assistere ad una manifestazione anticomunista nel secondo dopoguerra per le strade di Washington, Philadelphia o Dallas, “Better dead than red” sarebbe stato certamente uno degli slogan più gridati dalla folla.

In realtà esso è semplicemente la traduzione di “Lieber tot als rot”, una delle innumerevoli frasi di grande impatto coniate dal ministro della Propaganda Goebbels; rimane comunque un esempio molto chiaro di quanto la paura rossa avesse invaso le menti degli americani già sul tramontare della Seconda Guerra Mondiale.

Questo timore generalizzato non era però una novità sul palcoscenico a stelle e strisce: una prima ondata se ne ebbe ad inizio secolo dopo le notizie dell’avvento del bolscevismo nell’impero zarista, a seguito della Rivoluzione d’Ottobre, e che proseguì in modo sostenuto fin dopo la Grande Guerra. Prova ne sono le leggi emanate sotto la presidenza Wilson in materia di spionaggio e sedizione, volte a controllare e limitare la forza dei gruppi anarchico-socialisti; non mancarono arresti eccellenti, come quello del pluricandidato alla Casa Bianca Eugene Debs, ed esecuzioni ingiustificate, come toccò agli anarchici italiani Ferdinando Sacco e Bartolomeo Vanzetti.

E’ importante delineare a favore della comprensione globale dell’assetto sociale statunitense due aspetti di lungo periodo intrinsecamente connaturati ad esso. In primo luogo, la naturale estraneità della lotta di classe, core dell’intero messaggio comunista, alla politica americana e al suo assetto istituzionale, a cui si può ricollegare la preoccupazione per un conflitto sociale che avrebbe potuto minare le fondamenta democratiche stesse della Repubblica Federale; in seconda istanza, l’inquietudine per il flusso migratorio proveniente dall’Europa sud-occidentale sin dagli anni ’90 del XIX secolo, ritenuto “poco assimilabile” nel tessuto sociale da ampi strati dell’opinione pubblica.

A tutto ciò aggiungiamo un’ultima prospettiva storica, quella derivante dal Crollo di Wall Street del 1929:  l’incredibile depressione economico-finanziaria susseguente all’evaporazione di milioni e milioni di dollari in azioni bancarie portò una massa enorme di lavoratori alla disoccupazione, generando ulteriore ansia nei confronti di possibili disordini sociali. Roosevelt seppe intervenire con grande pragmatismo e grazie al suo New Deal gli USA tornarono non senza difficoltà ad una situazione stabile: per poter operare in questo modo il presidente democratico dovette però ricompattare tutte le anime della società, inclusi i sindacati e i movimenti a tutela dei lavoratori. Questa presa di posizione sarà osteggiata dai magnati e grandi industriali nel momento in cui l’economia riprenderà vigore, dal 1935-36, e proprio queste sono le basi per il movimento politico oggetto di questo articolo, il maccartismo.

Esso deve il proprio nome al senatore Joseph McCarthy, repubblicano ex-democratico nato nel Wyoming, che ben seppe inserire il proprio operato in quel contesto ideologico dominato dalla cosiddetta “Dottrina Truman”, riassumibile in una difesa degli interessi americani a qualsiasi costo e conseguentemente una lotta senza quartiere al nemico sovietico. Gli eventi geopolitici non sono secondari nella nostra trattazione: dalla Guerra civile cinese, cui venne dato ampio spazio sui mass media USA, alla Guerra di Corea, primo vero terreno di scontro tra le due superpotenze mondiali, senza dimenticare il fondamentale punto di equilibrio raggiunto tra le due contendenti con la creazione della prima atomica comunista, tutti questi sono fattori cruciali per comprendere il clima di “caccia alle streghe” che ha caratterizzato questo periodo.

Quello che venne definito da Eleanore Roosevelt come “una vera e propria ondata di fascismo, la più violenta e dannosa che questo paese abbia mai avuto” è stato un programma accurato e ben delineato, con indagini portate avanti dal capo dell’FBI J. Edgar nei confronti di qualsiasi dipendente statale sospettato di avere connessioni comuniste; bastava il pur minimo sospetto per essere messi sotto la lente d’ingrandimento della HUAC (House of Anti-American Committee), una commissione per le attività antiamericane voluta e creata proprio dallo stesso McCarthy.

Interrogatori ed investigazioni non mancarono di colpire celebrità e settori di spicco dell’industria statunitense: i casi più clamorosi si ebbero ad Hollywood, con personalità del calibro di Charlie Chaplin, Walt Disney, Gary Cooper e Arthur Miller interrogate ed accusate dai magistrati; i registi Elia Kazan e Edward Dmytryk furono obbligati persino a commettere delazione nei confronti dei loro colleghi. Fuori dalla cerchia cinematografica californiana va sicuramente ricordato il caso Rosenberg, in cui i due coniugi vennero incriminati di aver passato di nascosto segreti militari sugli armamenti nucleari (vennero poi condannati a morte).

La crociata anticomunista di McCarthy scemò a partire dal 1954, quando l’opinione pubblica poté finalmente osservare in televisione i metodi brutali con cui avvenivano gli interrogatori dei sospettati; questo compromise la credibilità del senatore, che perse anche il sostegno dell’esecutivo quando accusò i membri del comitato investigativo di essere “agenti involontari del Partito Comunista” e le alte sfere dell’esercito di avere simpatie comuniste.

Da quel momento col termine maccartismo si indicherà in ambito politico un clima di sospetto generalizzato, coadiuvato da un apparato repressivo e persecutorio, all’insegna dell’anticomunismo più opprimente.

Credits: copertina

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