TRA KEYNESIANI E AUSTERITY

Di Andrea Ancarani

E’ di qualche giorno fa la notizia che la BCE ha preso in considerazione un’ulteriore manovra di espansione monetaria “non-convenzionale” ritenuta prima da tutti come un’eventualità teorica, dell’”Helicopter money“, ovvero il far “piovere” soldi dalle banche centrali direttamente nei conti correnti dei cittadini. Questa sembra essere l’ultima spiaggia per un’Europa con bassissima inflazione, forte disoccupazione, salari stagnanti e un debito (pubblico e privato) elevatissimo. Molti economisti hanno applaudito a questa nuova manovra come un ritorno della politica economica Keynesiana dopo circa quarant’anni che questa era stata messa in soffitta (ovvero dalla crisi petrolifera del 1973 e dalla salita al potere dei partiti conservatori negli Stati Uniti e in Inghilterra). Tuttavia, la situazione attuale è ben diversa da quella immaginata dall’economista di Cambridge, e le politiche recentemente messe in campo dalla BCE e dai singoli stati si differenziano da quelle descritte nella “Teoria Generale” (1936).

In primo luogo Keynes non sognava un’espansione della base monetaria senza essere congiunta a investimenti da parte dello stato e a una politica fiscale espansiva. Oggi noi abbiamo la prima condizione con il Qe senza le altre due ovvero, a Eurolandia si sono infatti dimenticati degli investimenti statali (le famose “buche nel deserto” oggi associabili alla “spesa pubblica improduttiva”) e della diminuzione delle tasse per favorire investimenti e disincentivare il risparmio. Questa dimenticanza è dovuta al fatto che con il famoso trattato di Maastricht i singoli stati non possono sforare il 3% del rapporto deficit/Pil proibendo, di fatto, ogni politica espansiva da parte dello stato anche in senso fiscale. A tutto questo si aggiunge l’inflazione intorno allo 0% che non incentiva i risparmiatori a spendere o ad investire (la bassa inflazione segue il meccanismo per cui “aspettando che domani il pane costi di meno e oggi non spendo”).

Sul fronte opposto neanche Milton Friedman sarebbe soddisfatto dalla politica economica europea. Infatti se da un lato l’economista americano auspicava ad una diminuzione sui profitti aziendali così che gli imprenditori fossero incentivati a investire e dunque sostituire la spesa pubblica nel ruolo di volano dell’economia, oggi le tasse che gravano sulle aziende, secondo una stima dal Centro Studi di Confindustria (2016), si avvicinano al 64,8% dei profitti commerciali (la media mondiale è del 40,8%). Davvero un grande macigno sui ricavi aziendali.

Ciò che rimane da chiedersi è dove ci porterà la politica monetaria della BCE e delle grandi banche centrali mondiali, una politica senza dubbio anticonvenzionale che non trova precedenti nella teoria economica.

Credits: copertina

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