di Ivan Ferrari
L’ispettore Stewart McGuire era un quarantacinquenne ancora robusto, sostenuto sin dall’adolescenza da un’indole e un fisico vitali e resistenti. Tuttavia, la salita a cui era appena stato costretto dal decorso dell’ultima indagine lo aveva alquanto provato. Si appoggiò alla ruvida corteccia di un albero sbiancato dalla salsedine che una recente tempesta gli aveva gettato addosso dalle vicine scogliere. Lasciò spaziare lo sguardo sulla distesa ondeggiante in cui affondavano le pendici dei monti all’estremo nord della Scozia. L’erba verde s’interrompeva per lasciare il posto a quell’azzurro con la dolcezza di una nota che sfuma leggera nella successiva in una ballata bardica.
Il paesino che si era appena lasciato alle spalle se ne stava acquattato poco più in basso e lui scosse la testa nel pensare alla cattiva impressione che gli avevano fatto i suoi silenziosi abitanti. Quello era il luogo in cui si era consumata la portentosa tragedia sulla quale indagava. Una nube scura si avvicinava lentamente a riva dalle acque lontane e l’ispettore pregò che non piovesse quella notte, perché, per risolvere l’enigma, c’era un’ultima assurdità che egli voleva tentare prima di gettare la spugna come avevano già fatto tutti i suoi colleghi. Il caso di sparizione avvenuto su quelle montagne era, infatti, pervaso da un tale alone di mistero insolubile e terrore invincibile che gli agenti avevano abbandonato il campo in tempi straordinariamente rapidi. Prima che l’indagine venisse chiusa ufficialmente, egli si era sentito in dovere di fare ancora quel poco di luce che poteva e con ogni mezzo lecito, per quanto stravagante potesse essere. Non si accontentava minimamente delle mezze spiegazioni finora costruite e voleva trovare quanto bastava a motivare un ulteriore impegno delle autorità nella faccenda.
Ripreso il cammino, iniziò a ricostruire tra sé e sé gli elementi fondamentali del quadro d’insieme. La diciottenne Helen McDarling era scomparsa la notte tra il 3 e il 4 settembre 2017, tristemente nota per l’esplosione d’isteria e paranoia che colpì la popolazione di Ben Church nei mesi successivi. L’ondata di paura era culminata nel suicidio del reverendo Kevin Chisholm. L’ignoto villaggio di Ben Church sorge nell’estremo delle Higlands, sugli altipiani antistanti il freddo mistero dell’Atlantico nordico e in vista delle incantevoli Orcadi. Quella volta, le sue piccole case in pietra dipinta con vernici gessate ospitavano circa sessanta anime, tra le quali nessuno fu mai disposto a parlare di quanto accadde, né con le autorità competenti, né tantomeno con i pochi giornalisti che ancora s’interessavano della vicenda.
Di questa incresciosa esperienza la popolazione rese pochi e frammentari accenni alla polizia e purtroppo qualcuno ne rese di più all’intimità del confessionale che il povero Chisholm aveva iniziato visibilmente a temere, prima di farsi trovare una domenica dai suoi devoti confratelli impiccato alla corda del piccolo campanile georgiano. Quanto è stato comunicato dai pochi abitanti di paesi vicini non appare di grande aiuto. Le ottanta persone che affermarono di aver visto alcune luci danzare nel cielo tra le grandi nuvole nere che lo avevano coperto ammettono che le condizioni climatiche non erano ottimali per l’osservazione, inoltre i loro villaggi sono abbastanza lontani dal teatro dell’evento che sembra essere durato al massimo mezzora, iniziando intorno alle due. Tuttavia, sembrano ancora sinceramente spaventati, quando sussurrano tra loro le impressioni provate nell’udire il suono agghiacciante che le fece scomparire all’improvviso, echeggiando per tutte le vallate circostanti. Nessuna possibile conseguenza giudiziaria persuase i testimoni principali a parlare, la comunità di agricoltori e pescatori di Ben Church apparve ingabbiata nelle sue suggestioni. Molti di loro hanno deciso recentemente di affidarsi a qualche psicologo per riprendersi dalla paura, gli individui più sensibili sono arrivati a manifestare forme più o meno spinte di autolesionismo.
La superstizione non basterebbe a spiegare un orrore tanto pervasivo e continuo, sebbene la giovane Helen ne sia stata la sola vittima diretta. Le autorità competenti non seppero ritrovarne il corpo e la sua morte era ormai data per scontata. Scarsa collaborazione è stata prestata agli inquirenti non solo nella resa di testimonianze, ma soprattutto nella la ricerca della dispersa, perché la popolazione locale sembrava ripiegata sulla malcelata convinzione che Helen fosse stata vittima di ciò che ella stessa aveva provocato. I genitori della ragazza non hanno speso molte energie per cercarla, anzi il loro impegno è stato sospettosamente blando e ha lasciato sconcertate le autorità competenti. Per provocarli, Stewart aveva detto loro che tutto questo era degno delle più assurde fantasticherie medievali, ma non aveva cavato un ragno dal buco. Si direbbe che la sola persona che ha tentato con ogni mezzo di sottrarre la ragazza al nebuloso destino che l’ha inghiottita sia stato il coetaneo Edwin Knox, ora internato in una clinica specializzata in psicosi violente. Pare che il giovane avesse trovato in Helen la sua prima e ultima vera amicizia, poiché da sempre egli era stato un soggetto avulso dalla realtà che lo circondava. Gli psichiatri che lo seguivano ipotizzarono che i suoi disturbi avessero avuto origine dal rifiuto del mondo nato nel distaccato rapporto con i genitori, tipico per i figli di certi ricchi imprenditori, come nel suo caso. Poiché non erano mai a casa, i genitori avevano spedito il già taciturno Edwin dalla zia a Thurso, città portuale fondamentale per i collegamenti con le isole, comprese le lontane Fær Øer.
Con la sua notevole collezione di pittiche steli incise, Thurso sorge a est di Ben Church, ma sempre lungo la costa. Da quando aveva iniziato la scuola superiore, lo Charlotte Institute, il rifiuto del ragazzo verso la realtà si era tradotto in una passione eccessiva per lo studio della storia antica. Il passato, diceva il suo medico specialista, Nigel Craig, gli appariva distorto nell’immagine di una finestra aperta su territori ignoti e inquietantemente raggiungibili. Forse, come una sorta di redivivo poeta romantico, laddove egli credeva che il presente si fosse reso inadatto alla vita di esseri umani dotati di sentimenti autentici, il passato gli sembrava un porto sicuro più nuovo che vecchio. Anno dopo anno, aveva spesso trascurato le altre materie di studio e si era tenuto lontano da ogni rapporto umano per calarsi interamente nell’indagine di epoche sempre più remote. All’età antica era succeduta la preistoria, fino alla strenua indagine del tempo profondo in cui si perdono le congetture della filogenesi.
Stando al racconto fornito dallo stesso malato, Edwin aveva conosciuto Helen solamente l’ultimo anno, in una delle sue rare passeggiate nell’ampio cortile, attirato da un libro sulla mitologia celtica che lei stava leggendo all’ombra di un pino. Scoprendo un’insperata comunione d’interessi, i due avevano iniziato a frequentarsi sempre più spesso. I rispettivi compagni hanno riferito una voce tra il serio e il faceto secondo la quale l’unico scopo della loro familiarità era collaborare per abbandonare definitivamente questo pianeta, sebbene Helen non fosse mai stata alienata quanto il suo nuovo amico. Indubbiamente ella vi trovò una ricca fonte di nozioni che la interessavano moltissimo e prese l’abitudine d’invitarlo a casa sua ogni fine settimana. I compagni non pensarono mai alla possibilità che si trattasse di una normale amicizia o di un’attrazione sentimentale, perché Helen aveva rapidamente reso il ragazzo suo succube in modo quasi tirannico. Edwin era completamente remissivo e acquiescente nei confronti della ragazza. La seguiva muto come un’ombra tra gli sguardi derisori o stupiti degli altri ragazzi. talvolta cercava palesemente di evitare incontri con Helen, ma appena questi si verificavano i suoi indefinibili timori mutavano in un senso di sudditanza spiccatissimo. I genitori di lei una volta si sono lasciati sfuggire che immancabilmente la figlia portava l’amico nei vecchi boschi che coprono le colline sovrastanti la loro abitazione, dove sorge un piccolo sito archeologico che per la sua poca rilevanza era noto soltanto alla gente del posto e a qualche specialista. C’è chi sussurra malevolmente su ciò che i due avrebbero potuto fare lassù, molto più malevolmente di quanto si potrebbe fare per una banale ipotesi d’inconsuete abitudini sessuali. Bisogna anche dire che, in seguito ai fatti di settembre, il sito è stato rivalutato dagli archeologi.
Si tratta di un’anomalia ed è azzardato ricondurlo semplicisticamente a una fase dimenticata della cultura celtica comunemente nota. Di per sé appare solo come un ammasso di dieci macigni vagamente squadrati che circondano un singolo megalite, attorno ai quali vi sono altre pietre sparse, troppo consunte per fornire chiare testimonianze sull’origine e sull’uso del sito. I massi, in granito chiaro, non hanno una disposizione strettamente regolare e non presentano incisioni artistiche. La sola caratteristica che li rende riconoscibili come artificio è la presenza di fori realizzati con rudimentali strumenti al fine di trasportarli e raddrizzarli appoggiandoli gli uni sugli altri fino a formare una sorta di bassa recinzione attorno a un bruno megalite centrale dalla forma squadrata e dalla posizione “coricata” che lo fa sembrare un rudimentale altare. Questa pietra è un oggetto veramente interessante, poiché non ha niente in comune con ciò che lo attornia. Anzitutto si tratta di un’onice molto antica e questo di per sé basta a farne un oggetto inspiegabile, visto che tale pietra non è presente nella geologia della regione e che per spostarla occorrerebbero mezzi imponenti anche per le nostre concezioni. Gli esami fanno risalire l’origine della costruzione a circa novemila anni fa, nel Mesolitico. Molto ardua è però la datazione delle fitte incisioni di fattura straordinariamente raffinata che lo coprono interamente. Apparentemente, raffigurano soltanto complicatissime forme astratte, pertanto appare arduo immaginare che la datazione della scrittura sia la stessa del monumento. Uno stile così arabesco è estremamente insolito per la preistoria, inoltre si tratta del periodo in cui i primi esemplari di homo sapiens colonizzavano quella regione ed è difficile credere che già possedessero conoscenze tecniche sufficienti a realizzare una cosa simile. La pietra risulta infine stranamente magnetizzata, perché ricca di grani ferrosi che rendono ancora meno spiegabile la sua origine, e forse per questo il muschio non l’ha minimamente intaccata. Tale proprietà assegna un lucore agghiacciante all’intrico di svolazzi e prospettive vertiginose che coprono la pietra, le cui linee curve confondono l’osservatore, mentre quelle dritte creano angoli indicibilmente inquietanti.
In ogni caso, il suggestivo megalite condizionò la fantasia di Edwin al punto che egli, anche molto tempo dopo, si terrorizzava solo a vederne una fotografia, gettandosi a terra tremante e chiudendosi in un mutismo assoluto. I medici non fecero molti tentativi per fargli passare questa fobia, perché, anche limitandosi a parlargli dell’oggetto, ottenevano lo spiacevole risultato di vederlo incupirsi e farfugliare una monotona frase che gli si era fissata in mente da quando era impazzito: “La Regina dell’Incubo ci guarda dal suo ghiacciovelato seggio d’alabastro.”
Malgrado riuscisse a raccontare buona parte della sua storia con lucidità, il ragazzo ebbe spesso attacchi allucinatori, a seguito dei quali entrava in uno stato catatonico. Spesso chiedeva di poter disegnare, ma non faceva altro che riportare sulla carta simboli simili a quelli del megalite e chiuderli in un profilo frastagliato che lui definiva un mostro deciso a divorarlo. I medici hanno subito notato che il profilo del mostro, diversamente dai simboli che sono solo abbozzati e talvolta mancano del tutto, era sempre uguale e tratteggiato con precisione. Eppure non corrispondeva a una forma nota, sembrando soltanto il contorno di un’isola analoga a quelle che il ragazzo poteva osservare dall’altopiano di Ben Church. Alcuni ispettori particolarmente affascinati dal caso hanno denunciato i genitori di Helen per occultamento di prove, pur non sapendone definire esattamente il movente e pur non avendo alcuna fonte di riscontro per dimostrare il crimine. Certo, era assurdo che i quaderni della ragazza, delle cui stranezze aveva parlato tutta la sua classe, si fossero volatilizzati insieme a qualsiasi altro testo o file salvato sul suo notebook. Tutto lasciava supporre un deliberato tentativo di fare scomparire dal mondo quanto ella avesse pensato e fatto nella sua breve vita.
Le sole testimonianze scritte di Helen rimaste si riducevano a due lettere manoscritte trovate nella casa natale di Edwin, nella periferia di Inverness. La prima era poco rilevante, perché si limitava a delle lamentele sulle dicerie che le lunghe passeggiate fatte da lei e dal ragazzo avevano incoraggiato tanto nel vicinato quanto nei rispettivi genitori. Lei sembrava considerare quest’ultimi persone di scarse vedute e limitato ingegno, ma estendeva tale giudizio suppergiù all’intera umanità. Tuttavia, Helen conveniva con loro che qualcosa in lei non era conforme a natura. Ammetteva freddamente al ragazzo di averlo soggiogato completamente: sapeva che lui sentiva la propria personalità schiacciata dalla sua forza caratteriale e per questo non esitava a sbeffeggiarlo. Sapeva anche che lui non la considerava un’amica, ma piuttosto una guida affascinante e pericolosa nel mondo dell’occulto. La cosa non la irritava affatto. La seconda invece citava un testo antico e ponderoso che la ragazza aveva rinvenuto in una vecchia biblioteca di Edimburgo, durante una gita scolastica. Era un manoscritto anonimo intitolato Fragmenta Enigaris che lei ammetteva senza mezzi termini di avere rubato e che nessuno ha poi saputo ritrovare. Si ipotizzò un caso di pseudobiblium, perché non si trovarono testimonianze di un titolo simile negli archivi storici e la parola “Enigaris”, latinizzazione di un termine ignoto, non ha alcuna ricorrenza e nemmeno radici ipotizzabili. Stando alla lettera, l’autore del tomo era un monaco letterato che, nell’anno 413 d.C., aveva incontrato uno degli ultimi aedi rimasti in Scozia e questi gli aveva narrato una storia empia quanto affascinante. Effettivamente non era strano per un monaco dell’epoca il desiderio di riportare ai posteri ciò che egli poteva credere opera del Maligno. Si supponeva che la conoscenza delle distorsioni operate dai dèmoni sulla vera fede fosse necessaria a contrastarne gli stratagemmi e che comunque, il male stesso essendo parte del Grande Disegno, il saggio fedele potesse accumulare nozioni relative ai lati oscuri della Creazione anche per mettere alla prova e consolidare la propria fede. Il racconto del cantore trattava della celebre Ultima Thule, l’isola che in un’epoca imprecisata dell’antichità si sarebbe inabissata sopra l’odierno Regno Unito. Molti l’hanno identificata con l’Islanda o con una delle isole Shetland, sui fiordi delle quali sorgono le altere rovine di plurimillenari insediamenti gaelici. L’ipotesi avanzata dal nostro era assai diversa: egli dichiarava l’isola abitata da “uomini altri dagli uomini” che sarebbero stati capaci di edificare un’intera città megalitica, la cui descrizione era certamente iperbolica in termini di enormità. A causa di ciò che con un po’ di fantasia si potrebbe definire supremazia magica o tecnologica, questo popolo avrebbe dovuto dominare i non meglio definiti “nuovi arrivati del Sud”. Invece, un cataclisma vulcanico inabissò la loro isola e quelli tra loro rimasti sulle coste vennero sterminati.
La scrittura di Helen si faceva assai nervosa nel riportare all’amico che, stando a quanto era riuscita a tradurre, il poeta anonimo avrebbe profetizzato il ritorno dell’altra umanità e la catastrofe che ne sarebbe seguita. Questi esseri, egli diceva, erano incapaci di morire, se non venivano smembrati, e quindi ora dormirebbero immobili sul fondo del mare in attesa del ritorno all’aria e alla luce. Essi saprebbero già il destino a cui i nuovi arrivati hanno sottoposto i loro fratelli e desidererebbero vendicarli, soprattutto perché il loro massacro è stato dimenticato dai massacratori e questo sarebbe stato visto da quel popolo come un oltraggio insopportabile. La cosa più interessante è che il monaco stesso si fece autore di una supposizione finale davvero azzardata, specie in considerazione dei suoi doveri ecclesiastici: egli credeva che i nuovi arrivati del Sud fossero semplicemente gli umani come noi li conosciamo, giunti in Scozia all’epoca in cui venne eretto il sito di Ben Church, e che gli altri fossero un altro genere di creatura. Malgrado una simile apertura mentale fosse oltremodo apprezzabile in un uomo del suo tempo, stonava parecchio con i dettami della sua fede e comunque stona parecchio anche con ciò che il darwinismo classico le contrappose nell’età contemporanea. In alcuni passaggi egli sembrava voler dire qualcosa che però lo avrebbe messo nei guai con i confratelli. All’inizio dell’ultimo capitolo, c’era persino un sinistro accenno al viaggio che lui stesso avrebbe fatto in Scozia, dal quale si potrebbe desumere che l’ipotetico cantore sia un espediente letterario costruito per nascondere le proprie ricerche blasfeme. Le inquietudini che, a quanto notò Helen, a volte rendevano persino il suo tratto di amanuense esperto vagamente tremante erano perfettamente condivisibili da qualsiasi animo suggestionabile o abbastanza esperto di cladistica per comprendere l’atroce verosimiglianza degli esseri descritti in quelle pagine con possibili variazioni dei pitecini asiatici. Creature scimmiesche, dal lungo pelo bianco, ma dotate di uno sviluppo encefalico che faceva impallidire persino il rivoluzionario esame dell’homo florensis, il minuto umanoide che insegnò ai sapiens del Borneo come cacciare.
Tutte queste asserzioni del carteggio non hanno trovato alcun riscontro concreto e si pensa che fossero un morboso frutto della fantasia di Helen. I quaderni scolastici del suo compagno offrono altre interessanti informazioni, poiché egli vi aveva annotato le proprie paurose fantasie sulle cose che lei gli aveva fatto immaginare nelle loro lunghissime passeggiate colloquiali. Su alcune pagine del diario, invece di trascrivere i compiti, si era sfogato della tensione che Helen gli metteva, affermando che lei lo voleva vicino solamente per avere un orecchio diverso dal proprio nel momento in cui monologava accanto al megalite. Alcuni pensieri, in quei momenti, le scivolavano via dalla mente, specie se relativi a fatti recenti. Quindi aveva bisogno di farseli poi ricordare e di farsi ripetere certe parole udite. Lei gli aveva insegnato a vedere nei suoi disegni cose orribili a cui associava con mostruosa convinzione la narrazione di certi suoi sogni visionari. Una volta, essendosi particolarmente infervorata nella descrizione di quegli scenari apocalittici che vedeva, colmi di abominazioni striscianti intente a rosicchiare crani umani, aveva supposto che qualcuno da lontano li stesse deliberatamente infilando nel suo cervello come chiodi da tortura. Il ricordo più terrificante del ragazzo era quello di un piovoso pomeriggio in cui lei aveva voluto andare con lui nel bosco nonostante il maltempo e si era messa per l’ennesima volta a delirare davanti alla pietra. Quella volta, per un fugace istante, Edwin era convinto di aver sentito una voce risponderle dall’interno della pietra stessa… Una voce disumanamente profonda che proferì solo poche sillabe incomprensibili.
Nessuna sorpresa se il fascino che lo aveva spinto a stringere un’intesa con lei si stesse mutando in una fissazione decisamente ansiogena. Edwin temeva Helen e insieme ne era ipnotizzato, tanto da non poter mettere in dubbio la sensatezza della loro frequentazione a causa di questi crescenti disagi. L’ultimo testo del libriccino era particolarmente teso e riguardava il programma che lei prevedeva per quello che sarebbe stato il giorno della tragedia in cui sarebbe scomparsa, lasciandolo nella morsa della crescente pazzia. Edwin, con un misto di timore e confusa curiosità, scrisse che Helen lo considerava ormai sufficientemente preparato per ascoltare la voce delle pietre in maniera completa. Ovviamente lui aveva tentato di ottenere chiarimenti preliminari, ma lei era stata inflessibile, perché riteneva che la cosa non fosse affatto esplicabile nella prigionia delle grammatiche umane. Si era limitata a dire che le pietre cantano storie a chiunque sappia farne vibrare i cuori cristallini. Come lei avesse appreso questa ipoetica arte non era dato sapersi, Edwin era scettico riguardo al fatto che le fosse stato possibile semplicemente sognare le parole necessarie a interconnettersi col megalite. Il diario riportava le esatte parole della ragazza nel merito: “I nomi da conoscere sono nei disegni e si compongono nel pensiero di chi li contempla con l’adeguata prospettiva.” In sostanza, gli era stato chiesto di ottenere il permesso dai genitori di dormire fuori. Helen voleva farlo dormire sul megalite, evocando le essenze delle pietre che lo attorniavano. In tal modo, quelle essenze si sarebbero riversate sui disegni catalizzatori e di qui sul cervello più vicino, mostrandogli il volto di ignote potenze cosmiche.
Stewart ebbe un tremito nel ponderare queste faccende intriganti, ma un nuovo sussulto lo colse appena si trovò al limitare della radura in cui sorgeva il sito archeologico maledetto. I silenziosi pietroni sparsi tra le piante non sembravano interessanti, giacché pochi si trovavano vicini e ancora meno si toccavano, tutt’altra cosa era il circolo di pietre centrale, entro il quale si trovava il megalite d’onice. Pur sembrando quasi una formazione naturale, il recinto suggeriva una presenza inquietante tra i colli retrostanti. Sorgeva quasi in cima alla montagnola di Ben Church e, camminando qualche metro oltre, si sarebbe vista la valle adiacente. L’ispettore sospirò per farsi coraggio e si mosse verso la tetra anomalia litica. Una folata di vento improvvisa gli fece lievemente girare la testa e si accorse che la gelida aria salita dal mare recava in sé un aroma senza precedenti, sembrava un incenso delicato quanto estraneo a questo pianeta e, sebbene si disperse in un attimo, gli fece evocare nell’immaginazione amorfe figure d’ombra silenziosamente acquattate nella tenebra più inviolabile, sotto un sole antichissimo.
Presagendo un pericolo senza nome, Stewart trascinò le sue nolenti gambe fino al recinto di pietra e lo sfiorò. Lo aveva visto solamente in fotografia e finalmente comprendeva lo stato di agitazione che metteva addosso a chiunque vi si avvicinasse. Ora comprendeva perfettamente i suoi colleghi che avevano quasi pregato, dopo i primi rilevamenti, di non dovervi tornare. La ruvida e muscosa pietra era inspiegabilmente gelida al tatto, non meno del ghiaccio. Dando un’occhiata alla vecchia bussola che per curiosità aveva portato con sé, dovette constatare la torsione del campo magnetico nella zona. L’ago puntava sempre e solo il recinto di pietra. Siccome i massi erano molto vicini, per accedervi dovette scavalcare i più bassi, che raggiungevano appena un metro di altezza dal suolo. La cosa gli sembrò più stancante del dovuto, ma attribuì la sensazione a una banale suggestione.
Finalmente si trovò davanti il lucido megalite nero, con la sua foresta di simboli incisi che sfavillavano al sole del meriggio. Era così vicino al recinto di granito che per poco non vi era piombato direttamente sopra. Per qualche minuto rimase a fissare i crittogrammi, ma ne derivò unicamente angoscia. I simboli non gli sembravano significare nulla, ma le loro geometrie avevano qualcosa che andava ben oltre l’anormalità. Anche in questo caso le foto non gli avevano reso l’idea, perché la sensazione di disagio era intensa come se si fosse trovato nudo in mezzo al viavai di Princes Street. Avvicinandosi per osservare meglio l’intrico di linee, si sentì precipitare nelle loro spirali e, mentre un altro lieve soffio di vento parve portargli voci confuse dal mare, si lasciò prendere dal desiderio di sedersi sulla gelida pietra.
Nubi scure correvano sulla sua testa per nascondergli il sole e lui, toltosi il vecchio cappello che gettò a terra, si coricò per osservarle. Era steso su quello che poteva essere l’altare sacrificale eretto dai seguaci di divinità sanguinarie che affollarono i sogni di poeti preistorici, esseri di cui si parlò soltanto in lingue ormai sconosciute. L’ispettore aveva pensato troppe volte ai lati più sinistri della vicenda per non considerare l’ipotesi che l’oggetto potesse davvero comunicare in qualche modo e voleva tentare di udirlo. Benché il Sole non fosse tramontato, le nubi ne avevano quasi eliminati i raggi e pesavano col loro umidore sulle solitudini di quelle lande ancestrali.
Eppure erano altre le terre che il fruscio dell’erba e lo sciacquio delle onde gli facevano affiorare alla mente. Socchiudendo gli occhi, si lasciò sedurre da quelle insolite fantasie. Sovente, camminando per altri siti archeologici, si era immaginato quali costruzioni fossero supportate dai basamenti rimasti e che vita potessero suggerire le vestigia del passato. Più queste erano parziali e malconce, più lui si era divertito a fare ipotesi. Tuttavia, ciò che vedeva ora era diverso da quel che poteva essere stato edificato in quel luogo anticamente. L’ampia pianura e le spettrali montagne innevate che andava percorrendo in un volo incorporeo non appartenevano alla sua amata Scozia, né potevano esserle mai appartenute. Laddove calde sorgenti sollevavano spessi vapori dal sottosuolo e facevano verdeggiare di grassa erba gli altipiani, egli vedeva chiaramente molti giacimenti di onice nera. Piccoli laghetti pullulavano di pesci e cespugli di bacche rosse appartenenti a un minuto aghifoglie che non aveva mai visto s’inerpicavano ovunque. L’attività vulcanica diffusa aveva reso le pareti rocciose dense di caverne dalle quali a Stewart parve emanare una moltitudine di sguardi intenti a sondarlo.
Infine, nei pressi di un dislivello particolarmente ripido e quasi verticale, giunse in vista di una vasta città costruitagli a ridosso. Era una realtà incredibile, dove quasi tutti gli edifici erano costruzioni di pietra erette con secoli e secoli di sforzi atroci da mani instancabili. Pannelli di tessuti e pareti di argilla nera servivano da mero riempitivo per i lucidi edifici in onice. Su tutto regnava il fischio di venti freddi in eterna lotta col calore tellurico che generavano un sottile velo di ghiaccio sui tetti piatti delle costruzioni. Queste erano di ogni dimensione e molte se ne stavano ammassate le une sulle altre lungo il declivio, punteggiato dalle imboccature a strapiombo di grotte profonde. Certamente erano tutte collegate in un fitto tramaglio di cunicoli. Nel cielo danzava l’aurora boreale e le sue colorite oscillazioni svelarono uno degli sguardi che l’uomo sentiva sulla sua pelle. Assisa su un seggio di alabastro, tra due bracieri di roccia ferrigna, una creatura lo fissava dalla caverna più alta, vicino alla sommità del dirupo. Una creatura bianca, con occhi azzurri come i ghiacci tra cui viveva. Quella creatura gli suggerì il proprio nome dal profondo e Stewart sapeva, in qualche modo segreto, che era anche il nome del megalite tramite il quale ella parlava ai figli inviati a colonizzare la Vasta Terra degli Antenati, di là dai flutti. Un nome e un titolo quasi impronunciabili…
“Luta lambd’ke Enigaru oma Thule hella!” si ritrovò a gridare l’ispettore alzando le braccia al cielo oscuro sulla sua testa. Accortosi di aver fatto una cosa insensata, tentò di ricomporsi, ipotizzando di aver avuto un incubo. Eppure sentiva crescere dentro i suoi muscoli una tensione inarrestabile e presto udì qualcosa che lo fece rabbrividire. Le pietre avevano iniziato a cantare! Una monotona litania emergeva dai loro cuori cristallini, entrati in perfetta risonanza. Le angoscianti sonorità si accompagnavano a fonemi articolati che sembravano le orribili caricature di quel fenomeno uditivo che sin da bambino un uomo impara a conoscere come “parole”. Ora il vento portava voci che suonavano insieme suadenti e minacciose. Frasi pronunciate in una lingua ignota all’homo sapiens, una lingua che un homo sapiens non avrebbe potuto comunque scandire con le sue corde vocali. Era la stessa lingua in cui le pietre cantavano e veniva dal profondo del mare, oltre le Fær Øer, ma decisamente a est dell’Islanda e da una realtà non meno vasta! Stewart non comprendeva, ma vedeva gli argomenti della canzone scivolargli in testa come una cascata spumeggiante di sogni confusi. La città era laggiù, in quella terra sfuggita dal nostro mondo. Le poche pietre sparse intorno a lui sembrarono evocare forme di tenebra sopra le loro muscose superfici. Il muschio e l’erosione sembravano arretrare e ricondurre i macigni più lontani a forme squadrate, facendone comparire altri accanto. Costruzioni in pietra, terra e legno sorgevano ovunque dai ricordi archiviati nelle linee dei cristalli vibranti. Il cervello bombardato della vittima stava osservando le evocazioni della sua stessa fantasia, i cui fili ora erano retti dalle invisibili mani di un mostro senza volto. Un mostro che aveva l’aspetto di un’isola i cui rilievi si sollevavano sulle onde più fredde del globo terracqueo.
Le capanne disposte in cerchio intorno al recinto di pietre erano molte e piene di esseri bianchi e pelosi che camminavano in modo diverso dagli uomini che Stewart conosceva. Camminavano in processione, solo parzialmente coperti di pelli e muniti di bastoni variamente decorati, per danzare in cerchio intorno al loro luogo di culto. Gridavano i nomi di dèi sconosciuti che si acquattavano malevoli tra le polveri dello spazio profondo per ascoltare quelle grida devote. Gridavano i loro nomi per punire la scimmia senza peli che li aggrediva da terre lontane. Gli occhi degli dèi calarono dalle stelle e presero dimora nei vapori del mare, chiedendo in cambio la terra più bella di quel regno mortale. Allora la matriarca, che seguiva il rito da lontano con occhi diversi dal consueto, accolse la richiesta dei suoi padroni e lasciò che la città ciclopica scivolasse con le sue lande splendenti in un territorio senza tempo. Per evitare la tortura di vivere con quei deliri semicarnificati piovuti dalle dimensioni infernali, si lanciò dall’apertura della sua caverna che dava sulla città, prima che questa svanisse. Le intelligenze cosmiche, paghe del sacrificio, promisero che la vendetta delle stelle sarebbe stata un giorno chiamata da una seconda matriarca, una che si sarebbe eletta da sé tra le scimmie senza peli per punire la tracotanza del suo stesso popolo d’invasori spietati. Il vento soffiò con maggior violenza e le pietre tremarono mentre la loro funerea sinfonia mutava improvvisamente in qualcosa di simile al rullo di mille tamburi tribali impazziti. Fulmini globulari pervasero l’aria, come torce agitati da una processione di dèmoni astrali. Mentre una densa nebbia saliva in modo assurdamente rapido dalle scogliere, un’ultima immagine s’impresse nella testa martoriata dell’ispettore che gridò atterrito prima di svenire. Allora tutto tacque.
I nuovi fenomeni atmosferici attirarono una rinnovata attenzione da parte dell’opinione pubblica su Ben Church e dintorni. Ancora si erano avute luci nel cielo, allucinazioni e casi d’isteria, sebbene di minore entità rispetto ai precedenti. Le autorità, chiamate immediatamente dai cittadini terrorizzati, accorsero sul posto e si recarono immediatamente al sito archeologico, ormai comunemente considerato l’epicentro della follia. Le pietre di granito erano sempre uguali a se stesse e non vi era traccia di attività paranormali. Tracce di passi umani furono invece trovate subito dentro il recinto, dove il commissario Stewart McGuire venne individuato in condizioni pietose, con l’occhio vacuo e gli abiti inspiegabilmente laceri, intento ad abbracciare il terribile megalite nero con tutte le proprie forze. Appena vide gli agenti fare capolino tra i macigni del recinto iniziò a gridare frasi sconnesse circa una fantomatica “nebbia tagliente” che lo aveva aggredito da ogni direzione mediante “forme dentate con mille occhi in bocca”.
L’evento che i giornalisti hanno messo in primo piano, comunque, è l’ancor meno comprensibile scomparsa dei simboli incisi sull’antica pietra. Alcuni avevano azzardato l’ipotesi della sostituzione dell’oggetto, ma le rilevazioni degli specialisti sembrano concordare sul fatto che quella pietra è la stessa di prima. Nessun evento naturale conosciuto poteva, tuttavia, far scomparire nel nulla l’intrico di crittogrammi di cui era coperta fino al giorno prima. Il commissario venne dimesso dall’ospedale dopo un mese e trasferito immediatamente nella medesima struttura in cui era stato ricoverato Edwin Knox, dove i medici tentarono alcune ardite comparazioni tra i due casi.
Dopo la prima settimana, l’ex commissario ha quasi completamente smesso di parlare. Le sue ultime frasi intelligibili sono sfuggite dal segreto professionale di qualche medico che probabilmente ne era troppo oppresso per tacerle. Sono state riportate solamente da alcuni brutti blog, tabloid e riviste di occultismo: “L’umanità pullula sul piccolo pianeta che s’illude di controllare, ma l’abominevole Luna del Nord sogghigna ancora ai fuochi celesti che danzano sul mare gelato. Le nebbie che strisciano basse tra i neri scogli chiamano alla morte la brulicante stirpe di Caino, custodendo la vendetta che gli altri uomini hanno in serbo per coloro che osarono sterminarli e persino dimenticarli. Questo è ciò che sanno i tristi poeti, ormai chiusi in se stessi. A noi resta soltanto il tempo che meritiamo! Sapete cosa ho visto alla fine? Sapete chi c’è nella caverna più alta in questo momento? La vecchia matriarca è morta, sì… Era morente sin dall’alba dei nostri tempi sciagurati, ma era pur viva fino a pochi giorni fa. Eh, ma ha trovato una degna sostituta, non credete? Pensare che l’ho scambiata per quella vecchia scimmia! Ma capite? Ne indossava la pelliccia scuoiata. Che usanze orribili! E quelle creature l’accettano volentieri, sebbene non sia una di loro. Forse la vendetta è più completa, se la porta uno dei tuoi vecchi nemici contro gli altri della sua stessa schiatta. Chissà? Io so solo che il gelo vivente scivola lungo vie solitarie, dove nessuna luce lo raggiunge da millenni, mentre la Regina dell’Incubo ci guarda dal suo ghiacciovelato seggio d’alabastro.”
07.12.2011
Un commento su “Le pietre di Helen”