Spotify: speranza o trappola?

“Donne,bambini e proprietari di diritti vanno per primi!”

Questo è quello che tutti urlavano quando il “Titanic del Copyright” ha colpito l’iceberg-internet nel 2001, quando Napster è stato chiuso. Infatti, come ha predetto il co-svilupatore di Napster, Sean Parker,  “se chiudi Napster, si diffonderà a macchia d’olio e ti ritroverai fra le mani un gigantesco problema, dove combatterai servizio dopo servizio e non riuscirai più a riportare gli utenti in un unico posto”.

Tutto questo è successo per una semplice ragione: la natura di Internet incoraggia naturalmente gli utenti a condividere contenuti e sviluppare la loro creatività senza veri e propri “censori culturali” o, peggio, possessori di diritti. Alcuni studiosi, citandone uno Smiers, sostengono infatti che solo la copia fisica di un lavoro possa essere considerata sotto la legge del copyright: tutto ciò che è digitale può essere copiato all’infinito, ma è impossibile (e insensato) da rubare. Tuttavia, artisti e creativi in generale devono trovare un modo per sopravvivere e trarre profitto dai loro lavori.

Molto è stato fatto o detto finora per proporre un’alternativa, come ad esempio il sistema Creative Commons, ma sembra non si riesca a proteggere veramente l’autore o comunque chi vive sulla concezione ed esecuzione del prodotto. Ci sono altri modelli di business? Che ruolo può avere la pubblicità come forma di finanziamento? Come la televisione libera ha già dimostrato, gli investimenti pubblicitari possono sostenere il costo dell’intera industria, ricompensando sia gli artisti che il pubblico.

Spotify, il colosso svedese di streaming musicale,sembra un ottimo esempio per iniziare a capirlo.

Questa compagnia svedese ha comprato i diritti delle canzoni direttamente da chi li possedeva (case discografiche e più raramente artisti). Gli utenti possono scegliere se ascoltare musica gratuitamente con qualche piccola interruzione pubblicitaria oppure possono decidere di accedere al servizio premium (senza pubblicità e con musica offline). Gli artisti dovrebbero essere pagati con ciò che proviene da questi abbonamenti e dalle pubblicità.

Spotify, inoltre, permette di interagire con il contenuto come mai è stato possibile prima: l’utente ha un altissimo indice di personalizzazione e può tracciare i tuoi gusti, prevenendo la domanda con un’offerta già pronta. Tutto questo sarebbe fantastico se non fosse per il fatto che gli artisti non vengono ricompensati come si dovrebbe:

  • Spotify è così apprezzato dagli utenti che sta cannibalizzando tutte le altre forme di download legale
  • Le etichette discografiche sono diventate un buco nero di proventi. Dove finisce il 70% di entrate che Spotify dice di pagare in diritti?

Com’è facile da immaginare, i musicisti sono profondamente insoddisfatti da questa situazione.

Tuttavia, quando la pubblicità entra in gioco, sembra possibile trovare una soluzione a questo conflitto d’interessi. Infatti, come la giornalista Gillian B. Withe suggerisce sull’Atlantic, gli investimenti pubblicitari e i brand dovrebbero giocare un ruolo più importante all’interno del modello di business di Spotify. Ora come ora, solo il 10% delle entrate di Spotify proviene da queste fonti e, considerando il crescente interesse verso lo streaming musicale, le etichette potrebbero alzare il conto. In questo scenario, brand e creativi hanno solo da guadagnarci: eventi,  content e i brand stessi potrebbero essere contestualizzati e affiancati non solo ai loro valori rappresentativi, ma anche ai gusti musicali dell’utente (incredibilmente semplici da tracciare). Il brand verrebbe così collegato ad un esperienza, ad un’emozione, piuttosto che al tentativo di vendita di un prodotto. Considerato tutto questo, perché Mr Spotify e i Signori Brand non hanno ancora approfittato di queste possibilità?


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