Maledetto patriarcato: dalla preistoria alle civiltà mesopotamiche

Con una mano impugna la clava, con l’altra trascina la moglie. Così ci immaginiamo il rude rapporto tra uomo e donna nella preistoria. In realtà, quel cavernicolo di Fred Flintstone aveva più riguardi nei confronti della propria donna di quanto non ne avessero gli uomini delle epoche successive, e talvolta, degli uomini del ventunesimo secolo.

Testimonianze archeologiche dimostrano infatti quanto nelle civiltà pre-urbane dell’età della pietra le donne avessero un ruolo fondamentale nella sopravvivenza del gruppo. Nelle antiche culture della regione del Medio Oriente, la superiorità di una divinità femminile e l’elevata posizione sociale delle donne erano piuttosto la regola che non l’eccezione, e il culto della dea madre era praticato in tutta la regione nel periodo neolitico, sopravvivendo in alcune zone fino al 2000 a.C.

Come spiega l’archeologa Margharet Ehrenberg in La donna nella preistoria, l’approvvigionamento alimentare era frutto di un’intensa cooperazione tra i vari membri. Mentre l’uomo si impegnava nella caccia, la donna si specializzava nell’attività di raccolta di vegetali, ed essendo la componente vegetale estremamente sostanziosa nell’alimentazione di molte popolazioni di raccoglitori, le donne lavoravano e faticavano tanto quanto gli uomini. Ehrenberg individua inoltre nel passaggio all’allevamento e all’agricoltura intensiva, conseguente a un ammodernamento nelle tecniche di coltivazione, la ragione del radicale mutamento della condizione femminile nella comunità preistorica. Inizia così a imporsi il ruolo dominante del maschio, processo che vedrà una progressiva affermazione nelle fasi storiche successive.

Ho stabilito mia moglie come padre e madre della mia casa.

Nel bellissimo Oltre il velo di Leila Ahmed, testo che analizza l’evoluzione della questione femminile nell’epoca pre-islamica e poi islamica, capiamo però che è con lo sviluppo delle civiltà urbane e delle prime forme statuali che il maschilismo e il modello di società patriarcale iniziano a imporsi prepotentemente sulla vita delle cittadine donne.

I primi centri urbani del Medio Oriente nacquero in Mesopotamia, nelle valli del Tigri e dell’Eufrate, ovvero nella parte meridionale dell’attuale Iraq. Lo sviluppo di queste società urbane e la sempre più forte competitività militare dettero origine a una società stratificata in cui le élite militari e religiose costituivano le classi possidenti. La crescente complessità e specializzazione della società, costituita da artigiani, mercanti e contadini, contribuì all’ulteriore subordinazione delle donne, facilitando la loro esclusione dalla maggior parte delle attività professionali. Conseguentemente, la sessualità femminile diventò proprietà maschile, prima del padre e poi del marito, e la purezza sessuale della donna un bene negoziabile economicamente importante.

La famiglia patriarcale viene dunque istituzionalizzata, codificata e sostenuta dallo Stato, come nella civiltà Babilonese, e più tardi in quella Assira, ancor più severa e restrittiva.

Nel codice di Hammurabi, la raccolta di leggi stilata dal re Hammurabi di Babilonia, la donna disponeva di una certa tutela. Esso proibiva espressamente che le donne venissero picchiate o maltrattate, e limitava a tre anni il periodo in cui il marito poteva dare in pegno la propria moglie o i figli a causa di un debito contratto. Inoltre, consentiva al marito di divorziare facilmente, pagando un’ammenda o restituendo la dote. Le donne, invece, potevano ottenere il divorzio solo con grande difficoltà. La legge a proposito dice: “Se una donna odia a tal punto il marito da dichiarare: “Tu non mi puoi avere”, la sua condotta verrà giudicata dal consiglio della sua città e se si è comportata bene e non ha commesso colpe, può prendere la dote e ritornare a casa del padre“, ma se il consiglio stabiliva che la donna “non si era comportata bene, era una perditempo, trascurava la casa e umiliava il marito, dovranno buttarla nell’acqua”.

La legislazione assira (1200 a.C. circa) omise queste misure protettive e permise esplicitamente che le persone date in pegno venissero picchiate, trascinate per i capelli o trafitte nelle orecchie. Permetteva anche al marito di “strappare i capelli e mutilare o torcere le orecchie alla moglie, senza incorrere in alcuna sanzione” quando la puniva. Per quanto riguarda il divorzio, diversamente dalle leggi babilonesi, stava al marito decidere se compensare o meno la moglie, lasciandola a mani vuote.

All’epoca delle città-stato, il potere e l’autorità erano esercitati esclusivamente dal marito e dal padre, ai quali moglie e figli dovevano obbedienza assoluta. In un testo sumero della metà del III millennio a.C troviamo scritto che se la moglie osava contraddire il marito, questi poteva colpire la moglie sui denti con mattoni cotti e appenderli insanguinati alla porta di casa, affinché tutti li vedessero. Le leggi del codice assiro indicano inoltre che la violenza a una ragazza vergine era concepita come un crimine che danneggiava economicamente il padre della vittima: la pena, per uno stupratore non sposato, consisteva nel pagare a costui il prezzo di una donna vergine e nell’obbligo di sposare la donna violentata.

Nella legge assira esistevano disposizioni molto precise che specificavano quali donne dovessero portare il velo e quali no. Mogli e figlie dei signori dovevano essere velate, al pari delle concubine che accompagnavano le loro padrone e delle prostitute sacre che si erano sposate. Prostitute e schiave non potevano invece coprirsi il volto con il velo, e quelle sorprese a farlo illegalmente potevano essere punite in vario modo: con le frustate, col versamento di pece sulla testa, col taglio delle orecchie.
Secondo l’analisi di Gerda Lerner contenuta in The Creation of Patriarchy, il velo dunque non serviva solo a identificare le classi superiori, ma anche a dividere le donne “rispettabili” da quelle di “facili costumi”.

L’uso del velo, in altri termini, classificava le donne secondo il loro ruolo sessuale e segnalava agli uomini quali erano quelle sotto la protezione maschile e quali invece libero terreno di caccia. La divisione fra donne “rispettabili” e non era fondamentale nel sistema patriarcale; il loro posto nella gerarchia sociale dipendeva dall’avere o meno un rapporto con gli uomini che le proteggevano e dal loro ruolo sessuale, e non dalla loro professione o dal loro ruolo produttivo, come nel caso degli uomini.

Nonostante la loro inequivocabile subordinazione, sancita dalle leggi che regolavano la famiglia patriarcale, le donne di ceto superiore godevano di un’elevata posizione sociale, come pure di diritti legali e di privilegi. Questa loro posizione non era in conflitto con il sistema patriarcale, ma serviva piuttosto a favorire gli interessi dei patriarchi dominanti che fondavano il loro potere su una burocrazia patrimoniale, ovvero la possibilità di affidare importanti posizioni di potere a mogli, figlie, concubine per mantenere la sicurezza del proprio patrimonio. Alcune poterono in tal modo diventare sacerdotesse o sovrane, influenzavano le decisioni ed esercitavano un potere effettivo su uomini e donne di rango inferiore. Ma, come sottolinea la Lerner, la loro autorità derivava interamente dall’uomo da cui dipendevano o a cui erano legate.


Fonti

Margharet Ehrenberg, La donna nella preistoria, Mondadori, 1992.

Leila Ahmed, Oltre il velo, La Nuova Italia, 1995.

Wikipedia

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