Quando a primavera rinasce “La terra desolata”

È arrivata la primavera, e puntuale torna in mente il verso “Aprile è il mese più crudele“. Così Thomas Stearns Eliot apriva La terra desolata nel 1922; così inizia quella che molti hanno esaltato come l’opera d’arte poetica più enigmatica, influente e importante di tutta la letteratura del Novecento. Un controsenso, un paradosso, una contrapposizione in termini: perché mai il mese in cui la primavera sprigiona tutta la sua vitalità rigeneratrice, e che risveglia anche l’uomo dal torpore invernale, dovrebbe essere il mese più crudele? La risposta, come si vedrà, è riposta nella domanda stessa.

Eliot nel 1922 descrive un’umanità che si è sottratta al corso naturale del tempo. Una società che con le sue frenesie, con i suoi ritmi senza requie, non segue più il ciclo delle stagioni. Una logica molto semplice: in primavera c’è la rinascita della natura, che raggiunge il suo massimo rigoglio in estate, e poi il decadimento autunnale e infine la morte, che segna l’arrivo dell’inverno, per ricominciare nuovamente daccapo, in un ciclo stagionale eterno e immutabile – buco nell’ozono a parte. Quando la vita dell’uomo era ancora sincronizzata con lo scorrere del tempo naturale, la ciclicità non riguardava solo la concreta scansione del lavoro, delle attività produttive. Molto più intimamente, la ciclicità costituiva una cronologia spirituale, che si esprimeva nella celebrazione di riti collettivi atti a propiziare la fecondità della terra, il ritorno delle energie vitali. La terra desolata da rivitalizzare è quella della coscienza.

Il nome della prima parte del poema, Il sotterramento del morto, si riferisce proprio a uno di questi riti propiziatori, come vengono raccontati dall’antropologo James Frazer ne Il ramo d’oro – uno dei classici dell’antropologia. Tra le popolazioni dell’area mediterranea, Frazer riscontra la ricorrenza di miti e leggende che riguardano l’uomo e il ciclo stagionale, nelle quali in autunno il dio è ucciso e a primavera resuscita. Il rito in questione è quello del sotterramento: quando iniziava l’autunno venivano tumulati dei feticci, che venivano successivamente dissotterrati con l’arrivo della bella stagione – le veneri paleolitiche sono un esempio di questi feticci, di cui abbiamo l’espressione più famosa nella Venere di Willendorf.

Una variante del rito appena descritto è quella dell’immersione: invece di tumulare l’idolo nel terreno, questo veniva immerso nell’acqua e rinvenuto una volta terminato l’inverno. Ecco che si spiega anche il nome della quarta parte del poema, Morte per acqua: se l’effigie sommersa muore, “annega”, allora il rito propiziatorio non ha avuto esito positivo e la fertilità è compromessa. Nel poema di Eliot il marinaio fenicio, simbolo della cultura e delle tradizioni, trasmesse da un luogo all’altro attraverso il commercio, per l’appunto è morto annegato.

Un’altra immagine presente nel poema, collegata all’elemento acquatico e alla mitologia, è il re pescatore. Questa figura è un personaggio del ciclo arturiano, ma la matrice culturale è quella celtica. La leggenda vuole che dalla salute del re pescatore dipendesse la sanità della sua terra e del suo popolo: il deperimento del re costituiva la degradazione del suo regno. La situazione nella leggenda viene risolta con il sollevamento di una quest: i cavalieri del re partivano alla ricerca di un oggetto (il sacro Graal, e in senso lato la spiritualità, il senso delle cose) capace di far guarire il sovrano e riportare la fertilità nella sua terra. Questa non è altro che una variante cristianizzata di un mito della fertilità pagano, anteriore all’evangelizzazione del continente europeo.

Tutta questa impalcatura concettuale, tutti i riferimenti ai riti sulla fertilità che le società umane celebravano con religione, servono a Eliot per illustrare un tema estremamente moderno, e ugualmente senza tempo: la difficoltà dell’uomo nel mettere in pratica la rinascita a livello esistenziale, e insieme anche il desiderio di farlo. Affrontare la memoria, il passato, così come le aspettative per il futuro, fa tutto parte di un’esigenza umana che la primavera e la sua vitalità rendono ogni anno attuale.

Aprile è il mese più crudele, perché ci chiama a porre domande riguardo a noi stessi. Eliot insinua il dubbio che potremmo non essere in grado di rispondere.


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