Come sono finito nella lista nera degli islamisti

Politica e arte hanno dominato il pomeriggio trascorso con Hichem, giovane ragazzo di 27 anni e prima guida turistica tunisina in Lombardia, il quale ha passato con successo l’esame di abilitazione solo qualche mese dopo essere arrivato a Milano.

Hichem però non è emigrato in Italia per esercitare la sua professione. La sua stata è una scelta dolorosa, che gli è costata l’impossibilità di discutere la tesi per ottenere la laurea magistrale in Tunisia. Dopo essere stato in Grecia, decide di partire per l’Italia, e qui trova rifugio e un luogo dove poter tornare a fare politica all’interno del coordinamento italiano del Fronte Popolare.

Allora Hichem, tu sei qui a Milano dal 2013. Alle spalle hai un’importante storia di militanza politica, che parte dalla tua città natale, Gafsa.

Il mio concreto impegno politico ha inizio nel 2009 all’interno dell’Unione Generale degli Studenti universitari della Tunisia (UGET) a Sousse, dove mi sono trasferito per continuare l’università. Sono sempre stato immerso nella politica, essendo cresciuto in una famiglia di militanti di sinistra. Mio padre era operaio e sindacalista nelle miniere di fosfato di Gafsa, mio nonno aveva lottato per l’indipendenza contro i francesi, mentre mio fratello maggiore, anche lui ora guida turistica, era dentro al sindacato studentesco UGET. Il sindacato studentesco operava in clandestinità, ma io e mio fratello eravamo convinti che le lotte all’interno dell’università fossero indispensabili per portare la rivoluzione all’esterno di essa.

La regione in cui sono cresciuto, Gafsa, è sempre stata una delle più tormentate, oltre a essere una delle fonti principali di ricchezza del paese, grazie alle miniere di fosfato presenti. Qui la percentuale di morti per cancro è molto alta; gli operai rischiano la vita per vivere comunque nella miseria e la popolazione si ritrova dunque esclusa dalla ricchezza di questa regione. Il sindacato ha avuto un ruolo fondamentale nel portare avanti le lotte operaia ma queste sono state sistematicamente represse da Ben Ali. La rivoluzione insomma ha avuto origine proprio da qui.

Com’era la società tunisina durante gli anni della tua militanza?

Sotto Ben Ali praticamente potevi discutere solo di calcio. Non avevi il diritto di fare politica, e la polizia aveva la libertà di abusare del proprio potere come meglio credeva. Ad esempio ricordo che un giorno, mentre passeggiavo con la mia ragazza di allora, un poliziotto mi dice “Fermati figlio di puttana” e chiede a entrambi le nostre carte d’identità, chiamando anche lei “puttana”. Io lo insulto, e lui in risposta mi tira uno schiaffo e mi porta in commissariato per quattro giorni, dove vengo anche malmenato. E ancora oggi funziona così.

L’unico ambiente in cui si riusciva a respirare politica era l’università, e per questo venne istituita una “polizia universitaria” per controllare gli studenti militanti sia di sinistra che gli islamisti.
Una delle libertà per cui lottavamo in quegli anni era la libertà per le donne di portare il velo, essendo stato vietato dalle università, e questa è stata una battaglia fatta al fianco degli islamisti.
Le attività all’interno delle università hanno avuto grande rilevanza durante e dopo la rivoluzione.

Nell’inverno del 2011 anch’io ero in Tunisia, e il 14 gennaio, dal terrazzo della nave di ritorno in Italia, intravedevo del fumo arrivare dalla città oltre il porto. Qualche minuto dopo, la notizia di Ben Ali in fuga. Si è creato un clima di festa sulla nave, nessuno di noi se lo sarebbe mai aspettato. Raccontami come avete vissuto i giorni caldi della rivoluzione.

Il popolo Tunisino è invecchiato aspettando questo momento storico.
Il 13 gennaio il Presidente fece il suo discorso alla TV, chiedendo scusa al popolo, dichiarando di essersi sbagliato e di aver capito quali fossero le richieste, ma ormai era troppo tardi. Tutti si stavano riversando per le strade, marciando verso Sidi Bou Said e Cartagine, dove viveva il presidente, per andare a riprendersi tutto ciò che spettava a loro. I militari e la polizia hanno cercato in tutti i modi di reprimere e di terrorizzare la popolazione. Era stato indetto il coprifuoco e i cecchini potevano prendere di mira qualsiasi persona rimanesse in giro oltre l’orario decretato. Un mio vicino di casa si è preso quattro pallottole in testa.

I gas lacrimogeni, quasi mi manca il loro odore. Portavamo sempre con noi del latte, per lavarci la faccia dall’effetto urticante delle bombe gas. Chi non ha vissuto quei giorni in Tunisia, non ha vissuto niente. Non so spiegare a parole che cosa ho provato quando il 14 gennaio ci è arrivata la notizia che Ben Ali era stato messo in fuga, una sensazione meravigliosa. Nei giorni a seguire io e i compagni abbiamo festeggiato tutti i giorni, brindando alla rivoluzione.

Da quel momento quindi siete potuti uscire allo scoperto dichiarandovi liberamente militanti e sindacalisti?

Sì, anche se poi la strada è stata in salita. È come se di tutto un corpo, fosse cambiata solo la testa. Nelle elezioni successive è come se non ci fosse stato un reale cambio di regime. Nelle elezioni del 2011 il governo è andato nelle mani del partito islamista. L’Islam del tunisino io lo definisco da “bar e moschea”. È molto particolare. Trovo che la vittoria del partito sia stato causato più per un senso di pietà che per voglia di religione; gli islamisti sono stati perseguitati da Ben Ali e dunque si è voluto dare loro un’opportunità, oltre a essere stati corrotti con soldi e piccoli favori. Il Paese non è che peggiorato. Corruzione, degrado, abusi di potere e utilizzo di soldi pubblici per questioni private. Il primo ministro Hamadi Jebali è stato persino implicato in azioni terroristiche alla fine degli anni ’80.

Il 6 febbraio del 2013 è un giorno che non dimenticherò mai, il giorno in cui ho ricevuto quella chiamata: “Chokri Belaid [avvocato e militante del Fronte Popolare N.d.R.] è stato ammazzato”. Avevo un corso sul femminismo, sono subito entrato a lezione, ho avvisato la professoressa dell’accaduto che ha subito interrotto la lezione e con gli studenti dell’intera università siamo usciti per una marcia di 15 chilometri. Quel giorno sono scoppiate reazioni violente in tutto il paese; ce l’avevamo con gli islamisti perché sapevamo che erano stati loro. A luglio invece venne assassinato un altro militante del Fronte Popolare, Mohamed Brahmi.

Ed è stato a questo punto che hai compreso che la tua vita era ormai in pericolo?

Dopo la morte di Chokri ho iniziato a ricevere minacce. Gli islamisti mi chiamavano “il comunista radicale” e quindi il blasfemo. Sono spesso stato picchiato. La volta peggiore è stata quando nel 2013 gli islamisti hanno iniziato a reclamare la libertà di poter portare il niqab delle università. Noi militanti di sinistra eravamo assolutamente contro, e per questo ci sono stati scontri e minacce pesanti. Sono stato denunciato più volte, e arrestato due volte per qualche giorno. Anche se nulla può equiparare l’esperienza della galera e delle torture subite nel 2008 a Gafsa. Insomma, un giorno sono venuti da me a dirmi che ero nella loro lista nera e che erano pronti ad ammazzarmi. Per questo i militanti del Fronte mi hanno consigliato di andarmene per un po’ di tempo.

Sono partito allora per la Grecia dove c’era il campeggio della Quarta Internazionale credendo di stare solo venti giorni, ed è lì che ho conosciuto i compagni italiani. Siccome dalla Tunisia mi hanno consigliato di non tornare, ho deciso di andare in Italia. Da Igoumenitsa prendemmo un traghetto per Ancora, poi l’arrivo a Roma e infine a Trezzano sul Naviglio, dove ho iniziato a gestire un mercatino dell’usato.

La mia attività politica però non si è mai fermata. Ero sempre in contatto con i compagni in Tunisia e in Italia, e abbiamo dunque deciso di aprire un sezione del Fronte Popolare qua a Milano.

Ho infine ricevuto il permesso di soggiorno per asilo politico presentando tutta la documentazione che attestasse la mia esperienza politica, con i maltrattamenti e le minacce ricevute. Ho avuto un’avvocata bravissima, perché so che avere asilo politico è molto difficile.

Ci tengo a ribadirlo: io in Tunisia stavo bene. Non ero ricco, ma facevo la guida turistica e lavoravo sodo, anche se dopo la rivoluzione il flusso è calato. Anzi, i problemi di soldi semmai li ho ora. Avevo la scelta di andare in Francia, ma non ho voluto. Le città sono come le persone, è una questione di pelle. Milano per me è come se avesse un’anima di cui mi sono innamorato. Ogni strada nasconde un’opera d’arte tutta da scoprire.


Fonti

Crediti

Copertina

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.