Viaggio al confine d’Europa: Halt!

Qualche giorno fa ho compiuto un viaggio in treno da Milano a Friburgo: quattrocento chilometri attraverso tre paesi (tutti aderenti a Schengen) e due frontiere. Sono state proprio quelle due frontiere a lasciarmi un segno del tutto inaspettato.

Il viaggio da Milano a Fridburgo e il primo confine

La prima stazione del viaggio, dopo il confine italiano, è la grigia cittadina di Brig (Briga). A bordo salgono dei poliziotti di frontiera i quali cominciano una procedura che ha tutto il sapore di un protocollo ben preciso. Il “capo” passa nel corridoio di una carrozza. Sceglie a campione più passeggeri e le domande che  vengono rivolte sono quelle di sempre, tipiche di ogni frontiera: “Può fornirmi un documento?”, “Dove sta andando?”, “Per che motivi?”. Quando anche il cane antidroga è passato, il treno può riprendere la sua corsa.

Il secondo confine

Il secondo confine del viaggio arriva verso l’ora di pranzo, poco dopo aver lasciato Basel (Basilea). Questa volta, ad andare in scena, è la Bundespolizei, la polizia tedesca. Il copione eseguito è sempre lo stesso, con la differenza – almeno così mi pare – che i controlli siano più meticolosi su zaini e borse: persino un pacchetto di patatine viene reso oggetto di una breve e discreta “indagine”. Questa volta, nel “campione” di passeggeri, ci finisco anch’io, ed è qui che dentro di me accade qualcosa.

Spazio libero di circolazione

In altre parole, mi sono sentito rassicurato dalla presenza tangibile di quella sorveglianza. Ingenuamente ho sempre pensato che la paura appartenesse o ad un’opinione pubblica anonima o, tutt’al più, a coloro che hanno una visione ristretta di ciò che è politico e pubblico, al punto da temere che ogni elemento estraneo sia una minaccia per una rassicurante quotidianità. Eppure, su quel treno, la paura che ci fosse qualcosa o qualcuno che potesse farmi del male, la paura (e forse sì, anche il fastidio) che ci fosse l’ennesimo profugo, erano qualcosa di tangibile dentro di me.

All’orgoglio tutto europeo nell’avere uno spazio libero di circolazione si aggiungeva la consapevolezza che quei confini – venuti meno nel mondo esterno – erano tuttavia ben presenti ancora in me, che pure sono nato in un’Europa già da tempo in marcia e che pure non ho nulla da spartire con certe politiche di chiusura. S’era fatta viva quella parte intollerante che ciascuno di noi possiede e che ti fa capire come un certo linguaggio della paura ti sia entrato dentro, nonostante le migliori intenzioni.

Credo di aver bisogno di assimilare un’Europa diversa da queste logiche, diversa e contraria all’innalzamento di nuovi muri, fisici e ideologici. Si tratta, in fondo, di capire che il “vecchio continente” non è solo là fuori, ma anche dentro di noi, con tutta la sua storia e i suoi confini: alcuni vanno evidenziati, altri decisamente abbattuti!

 

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