Religiosità e intelligenza: come i pesci scalano alberi

“Ognuno è un genio.
Ma se giudichiamo un pesce dalla sua capacità di scalare un albero,
passerà la sua intera vita a sentirsi stupido.”

Si dice l’abbia detto Albert Einstein, se ci si basa sulle migliaia di condivisioni che questa citazione ha ottenuto, scritta in modo più o meno consapevole in decine di pagine Facebook. Che il suo autore sia o meno l’indiscusso genio del primo Novecento, questa frase pone un interrogativo interessante: può l’intelligenza essere valutata e misurata indiscutibilmente come una grandezza matematica?

La “Scala Binet-Simon” e l’origine del QI

Il primo a cercare di assegnare un punteggio numerico alle capacità intellettive di una persona con un test fu Alfred Binet, che nel 1905 pubblicò la Scala Binet-Simon. Questa era fatta per valutare le capacità logiche, di memorizzazione e osservazione dei bambini in relazione alla loro età. Il test fu fatto su un’ampia popolazione per poter avere una valutazione su base statistica che permettesse la maggiore oggettività possibile nel valutare il risultato del singolo individuo. Nacque così la prima idea di Quoziente Intellettivo (QI): punteggio acquisito nel test diviso per il punteggio medio dei bambini di pari età e moltiplicato per 100. Lo scopo iniziale era quello di modellare il percorso scolastico di ciascun bambino sottoposto al test in base alle sue capacità. Per esempio un bambino con un QI di 130 a 10 anni sarebbe stato considerato, dal punto di vista dell’età mentale, come un tredicenne. Numerose modifiche furono in seguito fatte, tanto da adattare questo sistema alla popolazione adulta, senza rapportare necessariamente all’età.

Una volta stabilito il metodo di misurazione, l’intelligenza è diventata così un parametro su cui si sono basate numerose ricerche di popolazione, che hanno messo a confonto abitanti di paesi diversi e diverse epoche storiche. La buona notizia risultata da queste ricerche sembra essere stata una generale tendenza di aumento di QI nel corso del Novecento (effetto Flynn).

La relazione tra intelligenza e religiosità

Un po’ contraddittorie appaiono invece le interpretazioni di diversi dati che mettono in relazione la religiosità con l’intelligenza. Basti notare i primi due risultati su Google quando si digita “religione intelligenza”. Il primo è un articolo uscito sull’Huffington Post ad agosto 2013. In esso si cita uno studio (“The Relation Between Intelligence and Religiosity”) che, basandosi su statistiche condotte a partire dal 1928, sostiene, facendosi forza di 53 ricerche sulle 63 prese in considerazione, le persone più intelligenti sono meno disposte a conformarsi e quindi ad accettare dogmi come quelli religiosi. QI e fede sarebbero dunque per questa ragione correlati in maniera negativa, soprattutto nei giovani.

Il secondo risultato afferma invece la teoria opposta: una correlazione positiva fra questi due parametri qualitativi che appare tanto difficile quantificare, testimoniata pare anche dal miglior rendimento scolastico di bambini appartenenti a famiglie di credenti.

Un rapporto problematico: il pensiero di Feuerbach e le dichiarazioni di Einstein

A sostegno della prima teoria si potrebbe adottare una citazione del filosofo L. Feuerbach, che ha ispirato nel XIX secolo le teorie sulla religione di Marx:

“Per arricchire Dio, l’uomo deve impoverirsi; affinché Dio sia tutto, l’uomo deve essere nulla.”

Tuttavia colui che riconosciamo come la personificazione delle massime capacità intellettive, lo scienziato A. Einstein, in una intervista del 1929, in risposta a una domanda sul suo rapporto con la religione sembra abbia risposto così (almeno secondo la sua inflazionata pagina di Wikiquote):

“Non sono un ateo. Il problema è troppo vasto per le nostre menti limitate. Siamo nella posizione di un bimbetto che entra in un’immensa biblioteca piena di libri scritti in molte lingue. Il bambino sa che qualcuno deve aver scritto quei libri. Ma non sa come. Non capisce le lingue in cui sono scritti. Intuisce indistintamente un ordine misterioso nella disposizione dei libri, ma non sa quale sia. Questo, mi sembra, è l’atteggiamento anche del più intelligente degli esseri umani verso Dio. Vediamo un universo meravigliosamente organizzato che obbedisce a certe leggi, ma comprendiamo solo indistintamente queste leggi.”

E’ dunque corretto tentare di affermare con sicurezza la relazione fra legame con una divinità e “l’abilità di ragionare, risolvere problemi, pensare astrattamente, capire idee complesse, imparare velocemente e apprendere dall’esperienza”? O si tratta, come per queste fonti incerte di citazioni, di forzature e interpretazioni?

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