emozione - definizione

Addio, emozioni

di Martina Difilo 

 Emozioni primarie: rabbia e paura, tristezza e gioia, sorpresa e attesa, disgusto e accettazione. Secondarie, derivano dalla combinazione delle primarie: allegria, vergogna, rassegnazione, gelosia, speranza, perdono, nostalgia, rimorso, delusione.

Rilesse questo elenco più volte.

Aveva deciso di chiudere con le emozioni, ma prima di farlo, decise che fosse il caso di conoscerle più da vicino: le aveva provate tutte? Le aveva provate nel modo giusto? Si chiese anche se esistessero un modo giusto ed uno sbagliato per provare delle emozioni. Lei, indubbiamente, aveva sempre optato per quello sbagliato. Le aveva sempre vissute troppo intensamente, era sempre troppo: troppo felice, troppo triste, troppo arrabbiata, troppo rassegnata, troppo gelosa. Ciò era in parte dovuto al suo modo di essere, alla sua persona ed in parte a quanto le vita le aveva offerto fino a quel punto.

Chiudere con le emozioni, quindi, le sembrava l’unica opzione intelligente, al fine di avere una vita più serena. Ma non era essa stessa, la serenità, un’emozione? Sarebbe stato davvero possibile scindere la persona che era, dalle emozioni che provava? O il suo era un folle progetto che l’avrebbe portata unicamente ad una delusione (ovvero, un’emozione)?

Ripensò a quanto la filosofia e Schopenhauer le avevano insegnato: data l’impossibilità del raggiungimento della felicità, l’uomo non può che sfuggire alla noia ed al dolore con l’assenza di emozioni. Ma tu, Arthur, ce l’hai fatta davvero?

Cercò di immaginarsi come sarebbero andate le cose se, in determinati momenti della sua vita, non si fosse lasciata sopraffare dalle emozioni, se fosse riuscita a mantenere un certo distacco da quanto le stava succedendo, se avesse reagito non come una ragazza emotiva, ma una cinica, una che sa il fatto suo. Sapeva di avere provato tutte le emozioni riportate in quell’elenco, perché era cosciente che la sua fin qui breve vita le aveva dato l’opportunità di affrontare così tante situazioni, da non essersi mai risparmiata una lacrima una lacrima, né un sorriso, né un litigio.

La rabbia più forte, provata quando non riusciva a farsi capire da sua madre durante l’adolescenza. Erano ad un passo l’una dall’altra, parlavano la stessa lingua, condividevano la stessa casa tutti i giorni, eppure la distanza tra loro era così grande, da farle crescere una rabbia dentro che sembrava incontenibile e si riversava nelle azioni più stupide che le venissero in mente, pur di far sì che, per lo meno, lei e sua madre conoscessero la stessa rabbia.

La paura più grande, quella di perdere quella stessa mamma che prima la faceva tanto arrabbiare, il vederla malata ed indifesa in un letto d’ospedale e il pensiero che un giorno non sarebbero più state insieme.

La tristezza più intensa, quella che le aveva colpito il cuore, lo stomaco, ogni singolo angolo del corpo; quella che l’aveva colta all’improvviso, ma non subito, quando se l’aspettava; quella che si era nascosta e le aveva fatto credere che nonostante il suo primo amore fosse finito, lei stesse bene. Per poi esplodere all’improvviso e farle piangere tutte le sue lacrime.

La gioia immensa di quando per la prima volta aveva preso in braccio il suo nipotino, si erano guardati negli occhi e in quello sguardo aveva riposto tutto l’amore del mondo.

L’attesa più lunga, quei sei mesi di terapia, con la speranza di sopire quel male che le cresceva dentro.

La sorpresa di scoprire che sulla malattia aveva vinto lei, alla fine di quei sei mesi.

Il disgusto più profondo nei confronti dell’ignoranza di taluni soggetti che avrebbero dovuto appartenere alla sua stessa razza, dotata di cervello.

L’accettazione di se stessa, la più faticosa: conoscere i propri limiti e saperli accettare. Cercare di limare i difetti, le imperfezioni, per poi scoprire che si piaceva così com’era, solo ancora non si conosceva bene.

L’allegria sincera dei momenti passati con le sue amiche, in cui c’è sempre qualcosa da dire, qualcosa da fare, qualcosa per cui ridere insieme e non stancarsi mai di farlo.

La vergogna di aver dovuto ammettere, ad un certo punto, che da sola non poteva farcela, che aveva bisogno di aiuto, che quell’ansia e quegli attacchi di panico non erano più gestibili con le sue sole forze. O almeno non con le sole forze che credeva di avere.

La rassegnazione di fronte a quell’amicizia così profonda, ma che si era rivelata così fragile. Ci aveva provato a sistemare le cose, a mettere delle toppe, ma non era bastato. E non le era rimasto che rassegnarsi.

La gelosia latente nei confronti della sua migliore amica, mai troppo palesata, nemmeno a se stessa, ma che alla fine non era un’emozione negativa: era un modo in più per dimostrarle il bene che le voleva.

La speranza, più grande di tutte, di riuscire a realizzare i suoi sogni: scrivere per vivere, essere felice, avere sempre al fianco le persone giuste, non perdere mai le forze, non perdersi mai.

Il perdono, non reale, riservato a quel papà che se n’era andato così presto, per poi capire solo più tardi che nessuno dei due aveva nulla di cui farsi perdonare: né lui per essersene andato, né lei per essersi arrabbiata tanto.

La nostalgia di un tempo che in realtà non ricordava, ma di cui riusciva a sentire lo stesso la mancanza: quegli anni prima che la vita della sua famiglia cambiasse per sempre.

Il rimorso di non aver vissuto appieno la prima occasione di ricominciare, ma di averla sprecata per paura di farsi male.

La delusione nei confronti di se stessa, per non aver saputo dimostrare fin dal primo esame quanto valesse, di aver lasciato vincere l’ansia, prima di tirare fuori tutta la forza.

E fu solo alla fine di questa rassegna di momenti, di emozioni, che capì che no, non esistono un modo giusto e uno sbagliato di provare emozioni; non esiste il poterle selezionare, scremare, preferirne una ed eliminare l’altra, né tantomeno l’eliminarle tutte come auspicava Schopenhauer. L’unica cosa che avrebbe potuto fare davanti ad un’emozione sarebbe stato viverla, fino alla fine, a più non posso. Perché senza tutto quel bagaglio di emozioni non sarebbe mai arrivata fino a quel punto, non si sarebbe mai resa conto di quanto avesse effettivamente vissuto. E le ritornò alla mente quella frase di Hugo che tanto l’aveva colpita alla prima lettura: “Morire non è nulla; non vivere è spaventoso” e non esiste peggior modo di non-vivere, se non escludendo quel che in larga parte ci definisce come persone, come umani, che ci differenzia gli uni dagli altri: le emozioni; perché era certa, in fondo, che per quanto fosse possibile classificarle, per quanta nomenclatura si potesse produrre, non potevano esistere, in tutto il mondo, due emozioni identiche: ognuna è unica ed irripetibile e, soprattutto, per quanto dolorosa, vale la pena di essere vissuta.

credits

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