Non chiamateli burqua

di Isabella Poretti 

 Il mondo della moda è discriminatorio. Quando si esce dal suo schema e dal suo “voglio”, la pena è il voltafaccia del dio Gusto, con annessa gogna muta durante la quale, camminando per strada, si viene guardati di sottecchi e a volte addirittura con scherno.

La tradizione, il costume, sono stati cancellati a colpi di omologazione e globalizzazione, tanto che, quando vediamo qualcuno che ancora indossa abiti tradizionali del proprio Paese d’origine, ci si presenta come fenomeno strano, anacronistico e magari anche un po’ retrogrado. Le minoranze etniche in Italia sono moltissime, e, specialmente quelle di origine africana, sembrano spesso dedite all’uso di costumi tradizionali. Ogni popolazione così dimostra di avere una forte identità, un legame straordinario con le proprie origini.

Tuttavia c’è una minoranza nella minoranza che accende da anni dibattiti infiniti proprio a causa del costume d’origine: la donna islamica. Sull’argomento burqa, i discorsi da bar si sprecano davvero. Chi è pro, chi è contro, ma pochi si sono davvero soffermati a pensare che enorme calderone confusionario si celi dietro alla questione del velo islamico.

Innanzitutto è necessario porre delle differenze tra i vari tipi di velo: quello che noi chiamiamo burqa è il velo integrale traforato all’altezza degli occhi, il niqab è una variante del burqa con una fessura per lasciare scoperti gli occhi, il chador è un velo nero che copre capo e fronte, l’al Amira è un velo bianco che contorna il volto, l’hijab è semplicemente un foulard avvolto come un velo. Le varianti non si esauriscono qui, ne esistono diverse altre.

L’Institute for Social Research della University of Michigan ha indagato in sette Paesi a maggioranza mussulmana (Turchia, Egitto, Tunisia, Libano, Pakistan, Arabia Saudita ed Iraq) per sapere quale tipologia di velo tra quelle elencate sopra viene preferita oggi.

Il risultato? In media i paesi mussulmani scelgono in maggioranza (44%) l’al Amira, il più comodo fra i veli, seguito dall’hijab, ancora meno conservatore. Agli estremi statistici troviamo da una parte la religiosissima Arabia Saudita, dove il 63% preferisce il niqab, e dalla parte opposta il Libano, nel quale quasi la metà opta per il capo scoperto. Più il velo cela la figura femminile, più questa appare oppressa dalla sua stessa cultura.

Il velo estremamente coprente è strumento di standardizzazione e omologazione della donna in culture come quella islamica, ma è necessario non generalizzare la questione in modo ignorante e disinformato. Intorno all’indumento dell’hijab, infatti, non si può davvero parlare di oppressione: questo tipo di velo non è solo indumento religioso, ma anche accessorio di gran moda tra le giovani donne islamiche. Le varianti di questo velo sono davvero moltissime: viene abbellito con spille, pieghe particolari e scelto con cura per i suoi colori e i suoi tessuti.

Non è più possibile parlare di omologazione della donna per questo indumento, bensì di evoluzione nella tradizione: la donna islamica in questo modo riesce ad identificarsi sia nelle proprie origini che come individuo.

Images: copertina

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