Minoranza sentimentale

di Martina Difilo

Il confine, all’interno della città, era netto. Abitavo con mia madre e le mie sorelle nella zona a sud di quella linea invisibile, eppure così demarcata.

Vista da fuori, la mia città sembrava una città come le altre: edifici, strade, insegne colorate, parchi. Uniforme ed unita. Solo vivendoci si poteva respirare quel confine, quel muro invalicabile che divideva la maggior parte della popolazione da noi, un centinaio di persone, relegate nel nostro piccolo ghetto.

Fin da piccola cominciai a percepire che i miei pochi amici ed io fossimo in qualche modo diversi dai bambini che ogni tanto riuscivamo ad intravedere in fondo alla strada principale. Mentre noi, usciti da casa della Signorina Pinkett, la nostra maestra, schiamazzavamo per la strada, giocando; loro, in fila ed ordinati, si dirigevano verso la fermata del bus. Ci fermavamo ad osservarli, ogni tanto, a scrutare da lontano quella serietà e quella compostezza che probabilmente i nostri genitori si auguravano per noi, ma che non ci avevano mai davvero imposto.

La Signorina Pinkett era la maestra di noi dieci bambini della zona sud della città. Eravamo di età di diverse, quindi doveva organizzare il suo lavoro in base alle esigenze di ognuno. La Signorina Pinkett insegnò a tutti noi a leggere e scrivere, a contare, a fare le operazioni, ma anche e soprattutto, la musica e, crescendo, la letteratura. Insisteva molto su quelle che erano le componenti emotive e sentimentali della letteratura, ciò che rendeva quelle opere uniche: le emozioni. Solo anni dopo capii il motivo di tutto questo insistere sulla gioia, la felicità, l’amore, ma anche la tristezza, la rabbia, il rancore. La Signorina Pinkett era molto determinata ad insegnarci cosa fossero le emozioni, i sentimenti e la loro importanza nella vita di ognuno di noi.

Fu intorno ai dodici anni che chiesi a mia madre, per la prima volta, perché non potessi giocare coi bambini in fondo alla strada principale e perché, in una città che mi sembrava enorme, incontrassimo sempre le stesse persone, percorressimo sempre e solo le stesse strade. La prima volta che glielo chiesi, mia madre fu molto evasiva; capii molti anni più tardi che il suo non volermi rispondere, era un modo di proteggere me e la visione dolcemente infantile che avevo del mondo.

Pochi anni dopo, però, mentre ero immersa nella lettura di un libro commissionatomi dalla Signorina Pinkett, mia madre entrò in camera mia, dicendomi che avrebbe risposto a qualunque domanda e, anzi, fu lei a cominciare a parlare, spiegandomi come funzionassero le cose nella nostra città.

“Se ho aspettato fino ad oggi a parlarti di questa cosa è perché una madre spera sempre che i suoi figli, nella vita, non debbano mai scontrarsi con le cose brutte del mondo. Ma in un modo o nell’altro sono cosciente del fatto che non potrò proteggerti per sempre”.

La ascoltavo con attenzione e apprensione, sentendo in fondo allo stomaco la sensazione che qualcosa stava cambiando nella mia vita, anche se forse non era un cambiamento di quelli evidenti, esteriori.

“In tutti questi anni ti ho sempre ripetuto di non superare mai il secondo isolato della strada principale, che oltre quel limite, che tu non vedevi, ma che io avevo bene impresso nella mente, non si poteva andare. Più volte hai assistito a qualche sbadato che, sovrappensiero, superasse quella linea netta e veniva riaccompagnato indietro, più o meno gentilmente, da uomini in divisa. Il motivo per cui non possiamo superare questo limite e per cui gli uomini e le donne dall’altra parte non vogliono valicarlo nella nostra direzione, è che coloro che ne vivono aldilà, sono diversi da noi. O forse sarebbe meglio dire che siamo noi ad essere diversi da loro. Quando tua nonna era poco più di una bambina, lei e la sua famiglia, insieme a molte altre, furono trasferite in questa parte della città, che ai tempi era molto più ampia e fu costruita apposta per loro. Il motivo di questo trasferimento è che nella città, così come nel resto del mondo, non c’era più spazio per gente come loro. Quello che sto per spiegarti a tratti ti sembrerà assurdo, perché hai sempre vissuto qui e perché non hai mai conosciuto il mondo esterno, nemmeno una singola persona che non facesse parte di questa nostra, ormai piccola società. La nonna e la sua famiglia e tutte le altre, furono allontanate perché, improvvisamente, pochi uomini, ma molto potenti, decisero che la loro presenza nella società che loro definivano civile fosse dannosa per le altre persone. Furono quindi dapprima segnalati alle autorità e poi condotti a vivere in questo quartiere, tutti insieme. Qui, i tuoi bisnonni e gli uomini e le donne della loro generazione, costruirono una nuova società, organizzandosi tra di loro, aiutandosi l’un l’altro, per far sì che la loro nuova cittadina non inciampasse negli stessi errori della città da cui provenivano. Negli anni però, com’era ovvio che fosse, questa nostra piccola società è andata sempre più diminuendo, fino a che non siamo rimasti solo noi. Quegli uomini potenti, stanno riuscendo nel loro intento di far sparire la gente come noi”.

Cercai di mettere ordine nei miei pensieri, di elaborare tutte le notizie appena apprese, ma c’era una domanda fondamentale che non mi permetteva di capire la totalità della situazione: cosa distingueva noi dalle persone nell’altra parte della città? Avevo osservato per anni quei bambini, mi erano sempre sembrati uguali a me, almeno nell’aspetto.

Quando posi questa domanda a mia madre, prese un grosso respiro prima di parlare. Mi spiegò che per quanto esteriormente quelle persone fossero uguali a noi, a renderle totalmente diverse era il modo che avevano di vivere la vita. Cercò di farmi capire -e mi pareva impossibile concepirlo- che in quella società definita civile, ai tempi dei miei bisnonni, vennero banditi elementi che nella mia visione delle cose erano necessari alla mia persona: le emozioni ed i sentimenti. Quella grande maggioranza di persone aveva deciso che le emozioni e i sentimenti non contavano nulla nella vita, non erano utili a trarre profitto da alcunché e di conseguenza era necessario bandirli, perché, anzi, spesso ostacolavano quelli che erano gli affari importanti. Nell’altra parte della città, quella più grande, i bambini a scuola non studiavano la musica, la letteratura, la storia, perché non erano ritenuti argomenti utili a formare un ottimo consumatore, un individuo votato al profitto e strenuamente legato a quanto di più materiale ci fosse nel mondo. Non affollavano i cortili e i parchi con i loro schiamazzi e i loro giochi, perché il gioco e il divertimento non erano ritenuti essenziali per formare un adulto razionale. Non esisteva amore, in quella parte della città: i matrimoni non erano null’altro che contratti come tanti altri, i figli nascevano perché una società così perfetta non poteva certamente arrestare il suo corso.

I miei bisnonni e quindi noi, eravamo stati relegati nel sud della città per evitare che il nostro modo deviato di vivere non intaccasse i saldi principi di quella città e del mondo intero. Non potevamo giocare con quei bambini per evitare che, in un momento della crescita in cui la mente non è ancora del tutto plasmata dal mondo adulto, questi potessero essere deviati dalla nostra compagnia e portati a pensare che le emozioni ed i sentimenti, positivi o negativi, fossero qualcosa di necessario alla sopravvivenza.

Conoscere, seppur solo attraverso le parole di mia madre, il mondo esterno, mi portò a riflettere su quanta parte della mia vita ricoprissero l’amore, la felicità, la tristezza, l’odio, il rancore, la rabbia. Compresi quanta parte della mia vita fosse basata sull’essere in grado di provare delle emozioni e dei sentimenti, quanto avessero formato la mia persona e tutte quelle intorno a me. Provai ad immaginare come sarebbe stata la mia vita senza tutto questo e la tristezza avvolse il mio cuore, a riprova del fatto che, senza emozioni, non saremmo umani.

Non ho mai avuto alcun contatto con nessuna persona che abitasse aldilà del confine invisibile che divideva la mia città dalla loro città. Sono rimasta per tutta la vita reclusa, con queste persone che sono ancora Persone, seppur poche e in costante diminuzione.

E ringrazio ogni giorno il cielo che i miei bisnonni siano stati considerati una minoranza da escludere, o non avrei mai potuto vivere la mia vita, magari non sempre felice, ma piena di emozioni, vissuta fino in fondo.

credits

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