Se lo shopping è un rituale, il consumismo è una religione?

Lo conosciamo bene
il vostro finto progresso
il vostro comandamento
“Ama il consumo come te stesso”

Già nel 1975 Fabrizio De Andrè, nella sua famosa canzone sul Maggio francese del ’68, utilizza toni biblici per descrivere la tendenza al consumismo sempre più forte.

Osservando la diffusione sempre più ampia della tendenza a comprare nuovi oggetti anche indipendentemente dall’effettiva necessità, con una frequenza sempre più rituale aiutata anche dalle aperture domenicali e festive di molti negozi, alcuni studiosi del fenomeno sono giunti a paragonare la società dei consumi a una struttura sociologica simile a una religione.

Fra questi, il sociologo Georg Ritzer scrive nel 1999 il saggio “Enchanting a Disenchanted World: Revolutionizing the Means of Consumption”, tradotto e pubblicato in italiano con il titolo “La religione dei consumi”. In esso egli definisce i centri commerciali come “cattedrali del consumo”, protagoniste del rito dello shopping. Undici anni dopo, con l’imporsi sempre più forte degli acquisti online egli, sul suo sito personale, riadatta le sue teorie al grande successo di Amazon: le “cattedrali” hanno ora un lato ancora più affascinante e misterioso, poiché si tratta di magazzini non visitabili se non attraverso il sito, ma tanto importanti da essere rese fulcro di futuristiche “aeropoli”, metropoli costruite attorno ad esse e ad un aeroporto, per rendere più semplici le spedizioni in tutto il mondo.

Sulla relazione fra credenze religiose e tendenza al consumismo hanno invece indagato, nel 2010, i ricercatori delle università di Tel Aviv e New York, attraverso una serie di esperimenti condotti su studenti americani.

Essi hanno chiesto ai soggetti reclutati (circa 300), divisi casualmente in due gruppi, di vivere una esperienza di shopping simulato, trovandosi davanti diversi tipi di merce, firmata o meno. La differenza consisteva nel fatto che uno dei due gruppi poco prima aveva dovuto descrivere il proprio rapporto con la religione e la propria routine religiosa, mentre l’altro era stato sottoposto a domande di vario genere sulla propria giornata.

Il gruppo “condizionato” dai pensieri sulla religione avuti a distanza di poco tempo sembrò avere minor tendenza a prediligere merce firmata di marche famose, rispetto all’altro gruppo. Da questo e da studi di popolazione condotti comparando i guadagni dei marchi più famosi in zone più o meno ricche di comunità religiose (ebraiche e cristiane), i ricercatori sembrano aver dedotto una maggior ricerca di identità data dal possesso di determinati oggetti o capi di abbigliamento in chi sente in misura minore l’identità religiosa.

Tale deduzione li ha portati a rapportare, in un sottotitolo del resoconto della ricerca pubblicato sul sito dell’università di Tel Aviv, la croce e la stella di Davide con il simbolo della Nike.

Tutti e tre, in fondo, possono essere indossati per dimostrare una appartenenza a un gruppo, ma è altrettanto automatico che sfoggiare uno di questi tre simboli debba necessariamente escludere gli altri due?

Images: copertina

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